Il quartier generale nella neve, alla frontiera di Siret. Una macchina dell’accoglienza ha accolto finora 130 mila sfollati dalle zone di guerra: donne, anziani e bambini. “Papà, ci ha accompagnati alla dogana ed è tornato indietro per difendere la nostra terra”

«Buongiorno a tutti. Secondo i dati rilevati dalla polizia di frontiera, nelle ultime 12 ore sono stati registrati 5.400 ingressi di ucraini». È la sveglia che, puntuale alle 7 del mattino, Ilie invia ogni giorno per messaggio a tutti coloro che gravitano nella zona di Siret, piccola cittadina al confine nord tra Romania e Ucraina. Dal 24 febbraio, con il primo attacco da parte dell’esercito russo, il Paese ha accolto più di 130mila sfollati. E i numeri aumentano ogni giorno di più. Quella dell’accoglienza, è una macchina che si muove con precisione chirurgica. E tutti hanno un compito da portare a termine. Già a chilometri, sul rettilineo che conduce alla vama - la dogana, nella lingua locale - si vedono lampeggiare luci rosse e blu. Sono i convogli della gendarmeria e dei pompieri. Questi ultimi, fanno la spola da una parte all’altra della Stato, con a bordo profughi diretti nei paesi più piccoli, quelli poco accessibili per mancanza di vie di comunicazione. Con loro anche ambulanze, furgoni della Croce rossa ucraina, enti religiosi e laici.

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L’hotel Frontiera, nascosto tra un benzinaio e un mini market, e in apparenza poco visibile per la neve che non dà tregua da giorni, ha cambiato i suoi piani, accogliendo chiunque sia in fuga e servendo cibo e bibite calde. I receptionist non si occupano più di servizio in camera o di far portare i bagagli dei clienti: gestiscono il traffico dei rifugiati e le pubbliche relazioni tra loro e i locali. La cucina è al lavoro 24 ore su 24 per sostenere i ritmi degli arrivi, e quindi il bisogno continuo di pasti per chi è presente. Dalle grandi finestre di quello che prima era il ristorante dell’albergo e adesso è luogo di ritrovo di corrispondenti e reporter, solo un’infinita distesa bianca di neve. Tutt’attorno, il nulla, ad eccezione della torretta che delimita i confini tra un Paese in guerra e uno in pace. Nella hall, una cinquantina di sedie disposte a ferro di cavallo. Seduti su ognuna delle sedie, uomini con lo sguardo perso, mamme che allattano i propri figli, bambini scorrazzanti e ragazze che trovano conforto scambiando qualche parola con chi hanno accanto.

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Lungo la strada che porta all’ultimo centimetro di territorio rumeno, nulla è lasciato al caso. Uno dopo l’altro si alternano i gazebo sotto cui vengono preparati abiti, pannolini, latte in polvere, assorbenti, guanti e cappelli. Panini, frutta, scatolette di riso o di tonno, gulasch appena fatto, tè alla menta. I preti ortodossi, raccolti nei loro abiti tradizionali, e senza neanche un capotto che li ripari dal freddo, stanno costruendo il loro banchetto su cui poggeranno, il giorno dopo, patatine, barrette al cioccolato, ovetti Kinder per i più piccoli e zuppe calde. Più in là, una tavola con cibo vegetariano e una cucina kosher. Ogni necessità è accolta e affrontata come imprescindibile, perché tutto funzioni nel migliore dei modi. Nel giro di 24 ore si sono arruolati tra i volontari anche interpreti, conoscitori della lingua dei segni, medici veterinari, cercatori di voli aerei per organizzare i viaggi di chi arriva ma è solo di passaggio.

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Il capo della polizia di frontiera ogni mattina coordina le operazioni per l’accoglienza e assegna a tutti un lavoro. Ogni persona lo esegue, in modo preciso, perché l’ingranaggio non può incepparsi. Chi distribuisce coperte, chi versa bicchieri d’acqua e chi mescola zuppe. Chi imbusta alcuni generi alimentari di prima necessità, chi si preoccupa di portare le stufe e chi dovrà tradurre ogni parola che verrà pronunciata.

Su un campo di terra grezza, la tendopoli, divisa per settori. Ciascuna struttura riporta il nome di un Paese diverso per facilitare lo smistamento dei cittadini ucraini. Ci sono poi tende riservate solo ad anziani, o solo a famiglie con bambini. In una di queste è seduto dentro un giubbotto mimetico più grande di lui, con le gambe a penzoloni e un berretto di lana sulla testa, Arsenij. «Come Lupin, ma io sono ucraino», dice. Scappa da Kiev, insieme a sua madre. Hanno viaggiato per tre giorni. Il padre li ha solo accompagnati fino alla dogana, poi è tornato indietro «per difendere la nostra terra». Nella tenda accanto, un biondino con gli occhi vispi dice di essere l’unico della famiglia a parlare inglese, e che ci penserà lui a tradurre per tutti. Si chiama Roman. «Siamo io, mio padre, mia madre e le mie due sorelle. Ho 11 anni e andavo a scuola. Viaggiamo da 5 giorni e andremo a Milano». Sono sicuri della loro scelta, perché ad attenderli ci saranno vecchi amici di famiglia. Con loro anche una cagnolina e un gatto avvolto in una coperta di pile.

 

Oleksandra invece parla un perfetto italiano: «Ho vissuto vent’anni a Belluno», racconta. Era tornata in Ucraina da qualche mese per accudire la madre che aveva contratto il Covid-19. Poi, la fuga. Ma c’è anche chi non ha intenzione di partire, come la famiglia di Ruslan, arrivato in Romania con la moglie e i due figli. Non vogliono spostarsi da qui: il loro unico desiderio è tornare in Ucraina per recuperare i bagagli e muoversi alla volta della Turchia. Elena si è lasciata tutto alle spalle, senza voltarsi indietro: teme che, una volta ritornata a casa, non troverà più nulla: «La guerra è così, spazza via». Con lei ha solo un cellulare e una borsetta rossa che stringe come se fosse la sua unica ragione di vita, mentre trema per il freddo. Nazar ha 22 anni ed è un accanito sostenitore di Zelensky: conosce ogni sfumatura, ogni vicenda lo riguardi, tanto da sfoggiarlo come una specie di santino, sullo sfondo del telefono. «Questa guerra è assurda, ingiusta, per fortuna abbiamo lui», continua a ripetere, sorridendo. Anna addenta il panino con la voracità di chi non mangia da giorni: ha bisogno di essere in forze per occuparsi del marito e dei due figli che dormono sdraiati su una brandina. La loro tenda dice “Bulgaria”, ed è lì che sono diretti. L’Italia è una delle destinazioni più agognate: come spiega uno degli autisti dei bus che percorrono quella tratta, sta diventando un problema arrivare fino lì. «È già accaduto di essere bloccati al confine: fermano i bambini perché non hanno il passaporto come i genitori, e per questo non è dimostrabile che possano essere imparentati tra di loro».

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Ad accogliere chi varca il confine ci sono non solo ong e associazioni, ma privati cittadini. Si danno appuntamento alla frontiera, scendendo dai villaggi vicini di Suceava, Radauti, Milisauti, piccoli agglomerati di case colorate avvolte nel gelo della steppa. Si ritrovano per la strada, con i colbacchi e i giubbotti catarifrangenti, e attendono di sapere quante famiglie potranno prelevare per portarle a casa e dar loro ristoro. Sono già centinaia gli ucraini al riparo nelle case di Siret e dintorni. «La nostra cultura ce lo impone, è una cosa naturale. Non abbiamo neanche il tempo di chiederci perché lo facciamo e se sia giusto farlo. Lo facciamo e basta», dicono.

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Michele è uno di loro: parla italiano, figlio di quell’immigrazione degli anni ’90, viveva a Torino. Poi è rientrato in Romania, dopo avere inviato per anni i soldi del proprio stipendio alla famiglia. Stavolta è lui a dover accogliere, e a non essere accolto. Anche alle 5 del mattino, o a mezzanotte, alla frontiera c’è qualcuno che aspetta. Così come si aspetta per le staffette: che siano per portare medicinali, o per accompagnare donne, bambini, anziani in fuga fino al primo posto di blocco utile per farli proseguire con altri mezzi e altri autisti. All’appello hanno risposto anche i conducenti dei taxi, concedendo di accompagnare per lunghe tratte chi arriva in Romania, gratuitamente. Così anche la stazione di Suceava che ogni giorno riceve centinaia di ucraini pronti a salire su una delle carrozze che li porteranno in giro per l’Europa. Nel frattempo migliaia di persone sono state messe al sicuro nelle chiese vicine, nelle palestre, nelle tendopoli sorte in mezzo a campi da calcio. O nei centri sportivi, come le migliaia di studenti indiani della Facoltà di medicina di Kiev che ora attendono un volo che possa riportarli a casa. Per le strade sono comparsi anche nuovi segnali stradali: «“er il rifugio ucraino, proseguire in questa direzione», recitano. Niente di posticcio o realizzato con materiali di seconda mano, ma segnali in metallo, regolamentari, fabbricati per l’occasione. «Slava Ukraini!», ripetono gli abitanti, fermi come piccole vedette alla frontiera, per tenere alto il morale di chi cammina, spaesato, tra le transenne. E intanto a Siret si è fatto giorno, e Ilie ha inviato un nuovo messaggio.