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No alla guerra, si grida nelle piazze. Immaginando che ci sia una posizione opposta: sì alla guerra. Ma chi, a parte qualche Putin una manciata di sconsiderati generali e i produttori di armi, è a favore della guerra? Nessuno. C’è poi quel corollario che complica le cose: no alla guerra «senza se e senza ma». È il rifiuto categorico, profondamente ideologico, per cui ci si ammanta della beatitudine dei puri di cuore. Scompare il contesto a favore dell’astrazione. E, in astratto, si raggiungerebbe comunque una quasi unanimità. Ma nel concreto?
Forse bisognerebbe abbandonare il singolare onnicomprensivo e considerare il plurale. Non c’è la guerra, ci sono le guerre, scomposte nelle loro infinite variabili e dunque nelle infinite possibili analisi. Andrebbe aggiunto il pronome dimostrativo: che fare con questa guerra? E ogni volta rimboccarsi le maniche, valutare nel profondo quale soluzione abbassi il livello di violenza, per approdare a conclusioni che, mondate dalla presa di posizione di principio, potrebbero essere diverse, addirittura opposte. La storia recente offre un catalogo completo, senza pretendere paragoni esattamente sovrapponibili: i paragoni sono sempre zoppi.
Ci fu, trent’anni fa, la Bosnia, l’assedio medievale di Sarajevo, i cecchini che sparavano in testa ai civili, donne, anziani, bambini. Si stilarono molti piani di pace tutti abortiti mentre i musulmani di Bosnia ci chiedevano di armarli per difendersi dagli aggressori serbi e, al nostro diniego (nostro dell’Occidente), si rivolsero ai correligionari del Golfo che risposero «d’accordo», avviando come effetto un’islamizzazione di un’area che mai lo era stata: i musulmani di Bosnia erano in stragrande maggioranza laici, prima. Dopo oltre tre anni e le manifestazioni alle basi di Aviano per impedire che partissero gli aerei dell’Alleanza atlantica, bastarono alcuni giorni di bombardamenti della Nato per far cessare il massacro. Con palmare evidenza si abbassò il livello di violenza, e quegli aerei, molto tempo prima, si sarebbero dovuti invocare anziché opporsi.
Venne poi l’Iraq, la sciagurata invasione di George Bush figlio con la sua coalizione di volenterosi. Cento milioni di persone, fu valutato, scesero in piazza lo stesso giorno nel mondo per scongiurarla. Era evidente che sarebbe stato il caos e il caos generò la carneficina quotidiana per lunghi anni, lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Era una guerra sbagliata, alzò il livello di violenza, lentamente se ne resero conto persino gli americani. Lo Stato islamico, oltre alla barbarie delle decapitazioni, gli infedeli mandati al rogo, le autobomba, gli attentati per le strade d’Europa, pianificò il genocidio degli yazidi. L’Occidente aiutò i combattenti curdi a fermarli, una brigata internazionale li affiancò a Kobane, ricordate Kobane? Era giusto fermare il sedicente califfo? Sì, e verrebbe da aggiungere in questo caso: senza se e senza ma. La Libia seguì grosso modo lo stesso copione. Via il tiranno, Saddam, Gheddafi, senza un piano per il dopo, via all’esplosione di una miriade di conflitti.
E veniamo a Putin. Si era già distinto per aggressività nel 2008 e nel 2014 per la guerra con la Georgia e l’annessione, peraltro senza sparare un colpo, della Crimea oltre che per gli aiuti forniti alle due Repubbliche separatiste dall’Ucraina di Donetsk e Lugansk nella guerra di logoramento che dura da otto anni e che ha prodotto poco meno di 15 mila morti. Un crescendo di desiderio espansionista per correre in soccorso ai 25 milioni di russi separati dalla madrepatria e per ripristinare uno spazio imperiale di influenza di zarista memoria. Un disegno mai occultato ed espresso a chiare lettere con il famoso discorso per giustificare l’attacco a Kiev quando ha definito l’Ucraina una creazione del bolscevismo e negato l’esistenza di un popolo ucraino: tutti russi, secondo lui, fratelli separati anche loro.
Che Putin avesse qualche ragione da proporre a un tavolo di trattative e prima che tuonasse il cannone sarebbe sciocco nasconderlo. Accanto agli splendidi ragazzi di Maidan e alla loro rivoluzione democratica c’erano davvero, infiltrate, delle formazioni neonaziste che soffiavano sul fuoco e che sono entrate persino nei primi governi dopo la rivolta di piazza. Così come non è stato saggio da parte della Nato allargarsi vistosamente ad est quando la Piccola Russia malridotta degli Anni Novanta non aveva la forza di opporsi e senza immaginare che il ritorno sulla scena geopolitica l’avrebbe indotta a portare indietro gli orologi della storia. In questa situazione già precaria il ventilato ingresso dell’Ucraina della Nato poteva essere il detonatore dell’esplosione.
Ma era tutta materia, appunto, di negoziazione, bilanciamento di interessi, diplomazia. Putin ha preferito le vie spicce. Gli Stati Uniti, Joe Biden in testa, avevano lanciato l’allarme sulla possibile invasione. In pochi ci avevano creduto, spesso gli americani in altre zone del pianeta hanno sbagliato pronostici. Ci eravamo dimenticati che dalla Guerra Fredda in poi il Pentagono ha un desk Russia tremendamente efficiente e con sensori allenati, mai smantellato.
E dunque, no alla guerra, gridano le piazze. Ma la guerra già c’è. Con un chiaro aggressore e un chiaro aggredito. Lo zar del Cremlino ipotizzava che potesse durare pochi giorni, le sue truppe accolte come liberatori, Zelensky rovesciato e sostituito da un Quisling suddito di Mosca. Non è andata così. Le feroce resistenza degli ucraini ha sconvolto i piani nonostante un’inferiorità militare palese. Ma si sa che chi difende la propria terra, la propria gente, triplica le forze e gode del vantaggio della conoscenza del suolo. Che fare allora? La corrente del realismo cinico chiede agli ucraini di arrendersi, senza condizioni. Sì, che Putin si prenda l’Ucraina, funzionino regolarmente gli oleodotti, scendano i prezzi di gas e petrolio, rimontino gli indici delle Borse spaventate. Un appeasement simile a Monaco 1938, e qui non si vuole tracciare un’analogia tra Hitler e Putin ma segnalare la stessa dinamica geopolitica: Hitler voleva i Sudeti perché abitati da tedescofoni e Vladimir Putin vagheggia la stessa soluzione per i suoi 25 milioni di russi fuori dalla Russia. Hitler non si fermò ai Sudeti e se Putin ha, di tutta evidenza, il sogno imperiale, di certo non si fermerà a Kiev. A meno che una potente reazione internazionale non gli insinui il dubbio che il sogno potrebbe trasformarsi in un incubo.
Come? L’opzione Sarajevo con l’intervento della Nato è chiaramente improponibile. Karadzic e Milosevic non avevano la bomba atomica, erano una piccola potenza regionale. Putin sì, ha gli ordigni nucleari e qualsiasi ingerenza dell’Alleanza Atlantica potrebbe scatenare la Terza guerra mondiale (aumento di violenza).
La passività sarebbe complicità con l’attaccante, sarebbe immorale e finirebbe per persuadere Putin che l’ignavia dell’Occidente, già sperimentata con la fuga vergognosa da Kabul davanti al talebani, è la sua miglior alleata per completare l’egemonia nella vasta regione euro-asiatica. Potrebbe scegliere à-la-carte la prossima vittima. La Moldavia con la sua Transnistria ancora sovietica? La Lettonia per raggiungere Kaliningrad, exclave russa separata dalla madre patria? Le altre Repubbliche baltiche? E perché no, a quel punto, far risuonare potente l’altra sua richiesta: che i soldati Nato lascino le nazioni entrate nell’Alleanza dopo il 1997 (in ogni caso sempre aumento di violenza).
La terza via, l’unica soluzione è armare gli ucraini. Ce lo chiede un popolo fiero che ha già dimostrato di non volersi assoggettare alla prepotenza e che sta difendendo, oltre a se stesso, anche l’Europa di cui è rimasto baluardo. Assomiglia a un armiamoci e partite? Un po’ si. L’assenza di alternative obbliga a questo compromesso, valutate come impercorribili tutte le altre opzioni. Una guerra partigiana ucraina come ce ne sono state nel Novecento e che stanno nel Pantheon di una sinistra che, almeno in una sua fetta, sembra aver perduto la memoria. Oltre alla lucidità di distinguere alcune linee rosse invalicabili. Non si invade uno Stato, non si fanno stragi di civili, non si bombardano gli ospedali, non si assediano le città. Ci siamo cullati nel mito dell’eterna pace kantiana. Quell’illusione non esiste più.