La storia
La fuga disperata di Macan e Svetlana: «A piedi, verso la speranza, il più lontano possibile da Mariupol»
Hanno viaggiato per 12 giorni. Passando per le foreste e cercando cibo e vestiti nelle case distrutte dalla guerra, fino a raggiungere l’Ungheria, dove vogliono restare il meno possibile. Perché l’Ucraina qui è ancora troppo vicina. Grazie all’aiuto di un volontario croato raggiungeranno la figlia in Estonia
Sono scesi dal treno con la vita stipata in due zainetti. «Abbiamo cercato di portare poche cose e conservare più spazio possibile per il cibo». Macan e Svetlana, sposati, ex operaio in fabbrica lui e casalinga lei, scendono dal treno con il volto tirato e senza tirare alcun sospiro di sollievo. Da Chop, ultima cittadina ucraina sul confine, a Záhony, Ungheria, frontiera orientale dell’Unione europea, il viaggio su rotaie dura una ventina di minuti. L’ultimo tratto di una fuga disperata, intrapresa con la speranza, vana, di fuggire attraverso i corridoi umanitari. «Dio ci ha salvato», dice Macan mostrando una foto sul suo cellulare. Sono le schegge della granata che ha colpito la loro macchina, costringendoli a percorrere a piedi i 110 chilometri che separano Mariupol da Berdiansk, dove erano sicuri di poter essere evacuati.
Hanno deciso di lasciare la loro città assediata un mese fa. «Mi sono servite ore per spiegare ai militari ucraini perché stessi lasciando il Paese senza unirmi ai combattimenti», racconta Macan. Che non è al fronte grazie al suo doppio passaporto, bosniaco e ucraino. Sono passati attraverso la foresta, incontrando sulla strada altre persone, altri bambini. Mai i vecchi, perché non hanno la forza di intraprendere un viaggio simile.
«Mi vergogno, perché eravamo affamati e abbiamo rubato il cibo nei supermercati distrutti e nelle case abbandonate», dice Svetlana. Prima di scappare da Mariupol lei e suo marito si prendevano cura di alcuni anziani, cucinando e portandogli ogni giorno del caffè caldo. Non hanno idea di cosa gli sia successo, non li hanno potuti portare con loro. «Aver lasciato indietro amici e conoscenti aumenta il nostro senso di colpa». La coppia ha dormito nei campi e alle fermate degli autobus per raggiungere Berdiansk, i piedi mossi da un’unica speranza: fuggire approfittando dell’apertura dei corridoi umanitari. Non è successo. «Una volta arrivati i volontari ci hanno dato un biglietto con il numero 61, il nostro posto. Gli autobus però prendono al massimo 50 persone, quindi non siamo riusciti a salire sul primo. Abbiamo aspettato l’altro, che non è mai arrivato».
Il loro viaggio fino a Chop, dove hanno preso il treno per l’Ungheria, è proseguito grazie all’aiuto dei militari ucraini e facendo l’autostop. La jeep dell’esercito li ha portati per altri 150 chilometri, poi si sono mossi grazie ai passaggi offerti da chi decideva di fermarsi e aiutarli. «Abbiamo scelto l’Ungheria perché la Polonia è già piena. Ora che siamo qui vogliamo raggiungere Budapest e prendere un aereo per Tallinn, Estonia, dove vive nostra figlia. Ma non abbiamo soldi, speriamo che una volta arrivati a Budapest ci aiuti qualcuno o che lei venga a prenderci».
A Záhony vogliono stare il meno possibile, perché l’Ucraina è ancora troppo vicina. Ma è ai binari di questa piccola stazione nel cuore orientale d’Europa che si consuma una piccola coincidenza fortunata. È Slaven, un volontario croato indipendente arrivato in Ungheria per aiutare, a regalare a Macan e Svetlana i soldi necessari per comprare i biglietti aerei. Lei piange e gli stringe la mano: «Perdonami se li accetto, ma ne abbiamo bisogno. Per la prima volta nella mia vita sono senza soldi e senza casa. Quando tutto sarà finito verrai a trovarci e ti preparerò una torta per ringraziarti».
Macan e Svetlana sono arrivati a Záhony alle dieci del mattino, due ore dopo erano già sul treno per Budapest. Eppure non sono sollevati: «Anche se la guerra finisse abbiamo comunque perso tutto. Dio ci perdoni per aver rubato il cibo». Non lo è neppure Slaven, che li guarda andare via con il senso di impotenza e la convinzione di non aver fatto abbastanza. Anche se in 24 giorni ha aiutato con la sua macchina più di 400 ucraini, prendendoli dai cinque punti di frontiera con l’Ungheria e portandoli dove gli chiedevano. Anche se ieri ha grigliato carne e verdure fino a sera, quando è arrivato l’ultimo treno da Chop con il suo carico di donne e bambini. «Sapere che ci sarebbero altre persone da salvare, bambini intrappolati e anziani che muoiono di fame mi sta uccidendo».