Con diplomatica freddezza, fuori dal clamore che si leva dai campi di battaglia ucraini, ma in una regione non meno essenziale per i destini del mondo come il Medio Oriente, l’egemonia americana viene messa alla prova da quelli che sono stati per decenni i più fedeli alleati degli Stati Uniti nel mondo arabo e islamico: gli emiri del petrolio assisi sui troni del Golfo. E così, mentre nell’Europa Orientale vengono polverizzati gli antichi equilibri scaturiti da Jalta, anche le “linee sulla sabbia” tracciate da Gran Bretagna e Francia nel 1916 vengono offuscate dalla tempesta. E per una potenza in fase di ripiegamento come l’America, l’incontenibile Cina, con la Russia a rimorchio, si fa spazio acquisendo il consenso degli attori locali.
È uno strappo che si consuma con parole felpate e gesti irrimediabili, al limite delle buone maniere. Ma corrode posizioni, rapporti, affari che si credevano immutabili. Alla base di tutto c’è una perdita di fiducia nella leadership politica da parte di quelli che Barack Obama aveva definito i “paesi arabi moderati”, gli alleati naturali di Washington, per convergenza di interessi e di obbiettivi strategici: Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Giordania, Marocco.
“Moderati” in che senso? Non certo in quanto luminosi esempi di democrazia, pressoché inesistente in molti di questi stati, ma nell’opposizione all’espansionismo iraniano che si è manifestato, dopo la seconda Guerra del Golfo del 2003, attraverso la nascita del cosiddetto Asse della Resistenza. Vale a dire il sistema di alleanze che il regime di Teheran, basato sull’islam sciita, ha stretto con la Siria di Bashar al-Assad e con alcune potenti milizie sciite della regione, dalle Unità di Mobilitazione Popolare (Ashd al-Shaabi) dominanti in Iraq, ai militanti Hazara dell’Afghanistan, alla tribù Houti dello Yemen, al Partito di Dio libanese, Hezbollah.
Ora, la strategia della “mano tesa” adottata da Barack Obama nei confronti dell’Iran ha creato le prime forti incrinature tra gli Stati Uniti e il Golfo, passando per Riad, dove l’affermazione della rivoluzione iraniana è stata vista come una “Minaccia esistenziale”, al pari d’Israele.
La decisione del successore di Obama, Donald Trump, di cancellare il Jcpoa (Joint Comprehensive Plan Of Action), l’accordo stretto il 24 Luglio del 2015 da Obama, assieme a Francia, Russia, Regno Unito, Cina e Germania, con l’Iran, per limitare e controllare le ambizioni nucleari di Teheran, ha momentaneamente risanato i rapporti con i paesi del Golfo. Ma la scelta di Joe Biden di riprendere il dossier con l’Iran e di tornare ad un accordo che, oltre alla questione nucleare, affrontasse anche il nodo del programma missilistico iraniano, nonostante la forte opposizione di Israele e dei paesi del Golfo, ha riaperto le vecchie ferite.
Oggi la situazione è a questo punto: dopo un anno di negoziati a Ginevra, i rappresentanti americani e iraniani che stanno discutendo la nuova versione del Jcpoa, con la partecipazione in veste di mediatore dell’inviato dell’Unione Europea, Enrique Mora, hanno concluso il lavoro e trovato un accordo di massima.
Restano da risolvere alcuni aspetti sui quali si sta ancora ragionando. E soprattutto sulla richiesta di Teheran di escludere i Guardiani della Rivoluzione Islamica (Pasdaran), il corpo paramilitare impiegato nella difesa dai nemici interni ed esterni, dalla lista delle organizzazioni terroristiche straniere in cui era stata inclusa da Trump, su richiesta del premier israeliano, Netanyahu. Mantenere i Pasdaran in quel limbo significherebbe rimanere nel regime delle sanzioni che hanno messo in ginocchio il regime di Teheran.
In realtà agli alleati del Golfo, come anche a Israele, ormai legati dalle condivisioni politiche e strategiche stabilite dagli Accordi di Abramo, cui in maniera occulta ma non troppo presta il fianco anche l’Arabia Saudita, non piace affatto l’idea che l’Iran esca dalla gabbia delle sanzioni. Essendo convinti che quanto prima e grazie allo scongelamento dei fondi bloccati, e al know how acquisito cercherà di costruire l’atomica.
Ma non è soltanto la contesa per la supremazia nel mondo arabo tra Teheran e Riad, vale a dire tra la potenza sciita e il reame leader dei sunniti, a mettere in discussione il sistema di alleanze degli Stati Uniti in questa parte del mondo. La decisione americana di ridimensionare la sua presenza in Medio Oriente, per concentrarsi sui più urgenti scenari di crisi, come l’Europa Orientale dove impazza la guerra per interposta persona contro Vladimir Putin, e su quelli futuri, come l’aria Asia-Pacifico oggi dominata dalla Cina, viene considerata dagli alleati di Washington un tradimento o, come ha scritto il giornale israeliano Israel Ayom, «una catastrofica ritirata», persino più grave di quella inglese degli anni ’50 e francese degli anni ’60.
Da qui, ogni pretesto è buono per segnalare il proprio dissenso. Come, ad esempio, con la visita ufficiale di Bashar al-Assad, lo scorso 18 marzo, negli Emirati Arabi Uniti, visita che ha rotto l’isolamento cui il rais di Damasco era stato condannato dall’inizio della guerra civile, nella Primavera del 2011.
Considerandolo un «massacratore del suo stesso popolo», gli Stati Uniti hanno imperniato la loro strategia sulla necessità di rimuovere Assad dal potere. Ma, grazie all’intervento militare russo del 2015 e all’aiuto dell’Iran, Assad è sopravvissuto e vede adesso aprirsi la possibilità di rientrare nel consesso della Lega Araba, dalla quale era stato espulso 11 anni fa.
Visita, quella di Assad a Dubai e Abu Dabi, che avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi momento, ma che il regista dell’evento, l’erede al trono e uomo forte degli Emirati, Mohammed Bin Zayed al Nahyam detto Mbz, alleato e sodale del principe “rinascimentale” saudita, Mohammed bin Salman (Mbs), ha voluto non a caso si svolgesse proprio adesso, quando i rapporti tra Uae e Stati Uniti sono ai minimi termini. A Washington, infatti, non è stato detto niente della visita. Biden ha saputo dai giornali dello schiaffo subito. E davanti a questa “improvvisata”, all’amministrazione americana non è rimasto che manifestare «profondo disappunto e turbamento», per l’accoglienza riservata ad un dittatore considerato alla stregua di un criminale di guerra.
Ma la visita di Assad non è il solo indizio del crescente screzio tra gli alleati di un tempo. La guerra in Ucraina ha fatto esplodere anche i contrasti che covavano da tempo sul prezzo del petrolio e del gas fra Washington, da un lato, e dall’altro Arabia Saudita ed Emirati, vale a dire i più grossi esportatori di greggio appartenenti all’Opec, il cartello dei maggiori paesi produttori di petrolio, dominato dai sauditi.
La questione è drammaticamente semplice. Per rendere efficaci le sanzioni inflitte alla Russia, fra le quali campeggia il blocco delle esportazioni russe di petrolio e gas, e per limitare i danni ai paesi alleati che hanno scelto di associarsi alle sanzioni, Biden ha bisogno che il prezzo del petrolio e del gas salito alle stelle proprio a causa delle sanzioni, scenda rapidamente. L’unico mezzo perché questo avvenga è che aumenti l’offerta, si immetta, cioè, sul mercato una maggior quantità di petrolio e gas, tale da compensare la riduzione del petrolio e del gas russi. E questo lo possono fare soltanto i sauditi e gli Emirati che, con la Russia, sono tra i maggiori esportatori di greggio al mondo. Il punto è che non hanno alcuna intenzione di farlo come hanno inequivocabilmente dimostrato Mbs ed Mbz, rifiutandosi di rispondere ad una telefonata di Biden il quale avrebbe voluto sollecitarli ad aumentare la produzione. Ma loro hanno preferito non farsi trovare. Non solo, lo stesso rifiuto malcelato hanno opposto al premier inglese Boris Johnson, volato a Dubai e a Ryad per conto di Biden.
Qualche giorno dopo, il 4 marzo, il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi sheik Ahmad bin Zayed, va in visita a Mosca per incontrare Sergey Lavrov con grande ostentazione di sorrisi e pacche sulle spalle. E alle obiezioni americane, risponde che quell’incontro in cui si è parlato anche di accrescere la cooperazione economica, come dire il commercio nonostante le sanzioni, fa parte della strategia degli Emirati di «parlare con tutti e non farsi nemici».
L’ultima provocazione, infine, è venuta dal saudita Mbs che, secondo il Wall Street Journal sarebbe disposto ad accettare che la Cina paghi una buona parte delle sue importazioni di petrolio saudita in Yuhan, anziché in dollari, così avviando il tramonto della valuta americana.