L’Europa degli ultimi
Storditi dalla colla per dimenticare la fame: la favela dei bambini rom nell’ex eldorado romeno
In quello che fu il ricco distretto minerario di Baia Mare sorgono le baraccopoli di Craica, il ghetto romanì. La scuola è un miraggio e i piccoli sniffano sostanze tossiche. “Qui lo Stato non mette piede”
C’è una linea ferroviaria dismessa che taglia a metà la periferia di Baia Mare, capoluogo della contea di Maramures, terra di confine tra le più povere d’Europa, fino a una ventina di anni fa leggendario eldorado, traino economico dell’intera Romania per via delle risorse minerarie.
Lungo le rotaie, baracche fatiscenti di legno e lamiera, ognuna con la propria recinzione sgangherata, i panni stesi e l’antenna parabolica, dalle quali sbucano curiosi tanti piccoli dai capelli arruffati, sporchi, il volto intenso, corrucciato, a un primo impatto diffidente. Sono i bambini della baraccopoli di Craica, ghetto di lingua e cultura romanì dove i sogni, i progetti e le ambizioni, anche le più semplici, non esistono perché l’infanzia termina presto, soffocata dall’odore dei rifiuti e della colla. «Eppure basterebbe poco, un’istruzione continua, un’applicazione costante», spiega suor Gabriela, insegnante carismatica e appassionata, che ha fatto del futuro scolastico e della crescita personale di questi bambini la sua missione.
Nicoleta saltella con spavalderia tra le assi del binario, dice di avere otto anni, «nu…noua», no nove, si corregge, aiutandosi con le dita delle mani, ma non ne è così tanto sicura. Quando vede la macchina fotografica, si ferma e si mette in posa davanti all’obiettivo, mani sui fianchi e bocca a cuore, come a imitare le it-girl dei social. A scuola non ci va, «nu…nu», ripete stizzita scuotendo il capo, allungando le vocali quasi a volerne allontanare l’idea, «nuuu…nuuu»; dopotutto, non ci vanno nemmeno i suoi coetanei. «È normale». Daniel siede invece su un muretto, la schiena appoggiata a una parete di lamiera, la felpa nera di una squadra americana di basket e l’espressione mogia, triste, lo sguardo perso. Non ha molta voglia di parlare. «Non mi sento bene», sono le uniche parole che riesce a dire; ha appena inalato della colla. Nella baraccopoli la usano in tanti, sollievo istantaneo e dilaniante che permette ad adulti e bambini di evadere per qualche ora da una quotidianità amara fatta di miseria e degrado, abbandono ed emarginazione sociale. Saper leggere e scrivere non serve a nulla; a Craica si impara a sopravvivere. Chi ci vive si trascina dietro, spesso inconsapevolmente, il peso di una storia lunga oltre cinquecento anni, quella dei romanì, «gli zingari», schiavi da sempre, dal 1385, stando ad alcune testimonianze storiche, quando in Europa la schiavitù era ancora una pratica diffusa e legale.
«Gli zingari sono nati per essere schiavi - stabiliva il Codice della Valacchia nel XIX secolo - e chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo». Un destino al quale ancora oggi sono condannati.
«Questa di Craica è una delle sei baraccopoli di Baia Mare», racconta suor Gabriela, mentre costeggia il binario, circondata da decine di bambini: «Viene considerata la più selvaggia per via della droga. Qui sniffano tutti, adulti, bambini, adolescenti; non solo colla, anche le etnobotaniche», ovvero allucinogeni ricavati dalle piante. È una catena difficile da spezzare, lo sa bene il ragazzino che barcolla in punta di piedi sulla barra destra della rotaia, ogni tanto improvvisa un inchino, incrociando le gambe, la destra dietro la sinistra, il cappuccio della felpa a nascondere capo e fronte, le mani e le narici screpolate. Avrà quindici anni, ne dimostra trentacinque. Succede sempre così, «attorno ai dodici, tredici anni, con l’arrivo delle prime mestruazioni, le ragazzine si sposano e fanno figli presto, alcune vengono anche costrette a prostituirsi; i ragazzini iniziano a rubare e ad avvicinarsi alla malavita». Non ci sono regole, «qui lo Stato non mette piede, nessuno viene a controllare e loro non devono rendere contro a nessuno»; e poi «mancano modelli da seguire».
Dopo la caduta di Ceausescu e la fine del regime comunista si è infatti persa una grande occasione per favorire l’integrazione dei rom alla società romena che, d’altro canto, è rimasta diffidente. «Lo Stato non ha fatto nessuna politica di integrazione c’è soltanto un accordo riguardo l’accesso all’istruzione superiore, una sorta di quota che consente a 2-3 ragazzi di etnia romanì di poter frequentare liceo e università anche con voti bassi», spiega suor Gabriela.
Ma non è così semplice, a quei livelli non ci arriva quasi nessuno. Quei pochi che riescono a studiare arrivano alla seconda forse anche terza elementare, ma non hanno vita facile: «Vengono emarginati e presi di mira dagli altri studenti» e finiscono per abbandonare quella che sembra essere una scommessa già persa in partenza. «Qui la gente ha poca fiducia nelle istituzioni», spiega George Jiglau, politologo e professore di scienze politiche all’università Babes-Boyai di Cluj-Napoca, tra le più prestigiose della Romania: «In questa regione c’è ancora un rapporto molto problematico tra cittadini e Stato e le istituzioni più in generale, incluse quelle scolastiche, vengono percepite in maniera negativa». Non è solo un fattore etnico-culturale, ma anche storico dato che nell’era comunista nelle scuole veniva fatta propaganda politica: «Oggi poi c’è un populismo molto diffuso, uno degli strascichi del comunismo».
Nel 2011, dopo quasi un decennio di dibattito politico, è entrata in vigore una legge che porta da otto a quattordici gli anni di scuola dell’obbligo ma il tasso di analfabetismo rimane sempre elevato, soprattutto tra la popolazione rom delle aree rurali. «Sarà un lavoro lungo, i risultati certo non si possono vedere adesso, ma solamente con le prossime generazioni. Servirà molto tempo», puntualizza suor Gabriela. La formula dell’istruzione come strumento di emancipazione e riscatto sociale, unico appiglio salvavita capace di regalare un’opportunità ai bambini di Craica e chissà, «magari anche ai loro figli e ai figli dei loro figli». Con questa motivazione, suor Gabriela, arrivata a Baia Mare sette anni fa da Roman, una cittadina del nord-est della Romania a settanta chilometri dalla ben più nota Iasi, dopo essere stata responsabile di un centro diurno per ragazzi poveri e anziani, trascorre tutti i pomeriggi nelle aule de “La Centrale”, una scuola di strada allestita grazie all’interessamento e alla collaborazione della Fundatia de voluntari somaschi, un centro di educazione per l’integrazione sociale diretto da padre Albano Allocco, torinese, con alle spalle una lunga esperienza in situazioni di emarginazione, definite «difficili». Quest’anno sono riusciti a coinvolgere ottanta bambini: «Alcuni di loro la mattina frequentano persino la scuola ufficiale, ce ne sono due, tre in terza media e sette o otto in seconda media», dice orgogliosa. Suor Gabriela fa quel che può, consapevole che partecipare alle attività, fare gruppo, a questi bambini apre la mente, allarga gli orizzonti ma «non basta» perché molto, se non tutto, «dipende poi dalle famiglie, dall’ambiente circostante».
Nelle baraccopoli le famiglie si amalgamano tra di loro, diventano clan, nuclei ramificati, caotici e complessi dove i padri spesso sono assenti per lavoro o per aver commesso qualche reato, oppure si sono allontanati, anche se di poco, per formare altre famiglie; difficile contarne con esattezza i figli. Qui sono tutti fratelli, supporto e punto di riferimento uno dell’altro, soprattutto i più piccoli, nella buona e nella cattiva sorte. Alle donne, il compito di tenere assieme questa realtà cruda e frammentata, non semplice da gestire, che scivola via, sfugge di mano e per questo diventa più facile sniffare, vendersi, dimenticare. Suzana ha trent’anni e cinque figli, «tre maschi e due femmine», dice indicandoli uno ad uno, dalla maggiore di tredici anni alla più piccola di due. A Craica ci è arrivata giovanissima, «sedici anni fa, dopo essermi sposata con un ragazzo del posto», racconta col sorriso che le illumina il volto, pieno, un fazzoletto bianco a farne il contorno e lo sguardo buono e risolto di chi ha accettato il proprio destino. Eppure sembra avere qualcosa di speciale che la distingue dalle altre donne della baraccopoli e che è riuscita a trasmettere ad almeno due dei suoi ragazzi, Maria e Gageo, «straniero» in lingua romanì, nome, forse solo un soprannome, che gli è stato dato per via degli occhi azzurri, da straniero, appunto. Li manda a scuola, giusto? «Sì, li mandavo fino a qualche mese fa. Ma adesso sono riuscita a comperare loro dei vestiti nuovi, puliti, allora presto ci torneranno», dice. Ma cosa desidera per i suoi figli? «Non so. Difficile immaginare una vita diversa, un futuro fuori da qui».