In questi ultimi mesi, tra la presa di potere dei talebani in Afghanistan e l’invasione russa in Ucraina, la politica estera ha occupato le prime pagine di tutti i giornali. Come si percepisce dalle notizie e dal susseguirsi di eventi e dichiarazioni, la politica estera che vediamo di fronte ai nostri occhi è la cosiddetta realpolitik. Dominata da interessi nazionali, dello Stato. Incentrata sul concetto di sicurezza, interpretato come uso della forza militare ed esibizione del proprio potere. Nei fatti dominata da uomini - ad oggi le donne in posizioni di potere e attorno ai tavoli delle negoziazioni si contano sulle dita di una mano (e a volte non si contano proprio). Una politica estera che, proprio perché strutturata attorno a certi princìpi e comportamenti di chi la fa, è in parte responsabile della situazione in cui ci ritroviamo oggi: guerre - la più recente dietro casa nostra -, ineguaglianze crescenti, mancanza di collaborazione e visione comune tra Stati su problemi e sfide trans-nazionali, che non conoscono frontiere.
Insomma, quella che vediamo sui giornali, in tv, nelle stanze della politica, sembra lontana dall’essere un meccanismo per assicurare pace, solidarietà, eguaglianza e giustizia tra Paesi, e i fatti lo confermano.
Proprio per questo ci serve re-immaginare i suoi princìpi e le sue caratteristiche. Partendo da un concetto di sicurezza incentrato sulla sicurezza umana, non militare. Da una presa di decisioni e da una leadership condivisa tra uomini e donne, capace di rispettare e dare una voce anche alla miriade di minoranze che costituiscono la nostra società. Da decisioni politiche ed economiche che mettano al centro il welfare delle persone, specialmente le più vulnerabili ai conflitti come bambini e donne. Le prime vittime sono infatti loro, come dimostra lo status ad oggi delle donne in Afghanistan, i soprusi e gli stupri sulle donne ucraine, e i traumi e la perdita di opportunità che subiscono i bambini. Insomma, un modo di fare politica estera che possa risolvere le radici di conflitti invece che generarli, che possa creare eguaglianza, solidarietà e giustizia tra Paesi invece che competizione e disfunzionalità. Un approccio che sappia andare oltre il puro e duro interesse nazionale, oltre la realpolitik.
Con questo obiettivo in mente, alcuni Paesi “all’avanguardia” hanno iniziato a re-immaginare l’approccio alla politica estera. Partendo da una domanda: il mondo sarebbe dove è oggi se ci fossero più donne al potere, se ci fosse più rappresentanza e diversità tra chi prende le decisioni in questo campo? Una domanda che ci siamo forse chiesti tutti e tutte ad un certo punto della nostra vita, a casa, in azienda o in politica. La cui risposta, di solito, è: probabilmente no.
E così, nel 2014, la Svezia ha deciso di lanciare la Feminist foreign policy (Ffp), la politica estera femminista, con l’obiettivo di riformare l’approccio al settore. La Ffp è un framework politico multi-dimensionale incentrato sul benessere delle persone, con un’attenzione particolare alle donne e alle persone marginalizzate, proprio perché una pace sostenibile, una sicurezza umana e lo sviluppo globale non potranno essere raggiunti se metà della popolazione mondiale ne è esclusa – come confermato da numerose ricerche. Un framework che si articola su 3 concetti: diritti, rappresentazione e risorse. Concetti che fungono quindi da guida nell’analisi e nelle decisioni riguardanti la politica estera e l’allocazione dei fondi: donne e uomini, bambine e bambini hanno gli stessi diritti? Le donne sono rappresentate dove si prendono decisioni che le impattano, nei Parlamenti, nei consigli di amministrazione, nei sistemi legali? L’impatto che una decisione ha sulla parità di genere è preso in considerazione quando si distribuiscono i fondi del governo? La maggior parte delle volte la risposta a queste domande è stata «no», e così i vari governi svedesi hanno preso - anno dopo anno - decisioni mirate a invertire queste ineguaglianze e discriminazioni. E, non a caso, la Svezia è diventato un Paese leader sia sulle questioni di genere che in tema di innovazione politica.
Adottando la lente della Feminist foreign policy, la Svezia ha dunque lavorato negli anni su due fronti: sull’impatto che il sistema esistente ha sulle donne ma anche sull’impatto che le donne stesse potrebbero avere sul sistema se ne facessero parte in modo paritario - soprattutto al livello del decision-making. E, così facendo, ha creato un network globale di mediatrici donne, aumentato la rappresentazione femminile nei processi di pace e nei sistemi legali, portato avanti progetti ambiziosi in relazione ai temi di pace, sicurezza e donne al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In poche parole, ha creato nei fatti un framework capace di porsi come alternativa alla realpolitik. Tramite cui si sta iniziando a scardinare un sistema che, ad oggi, continua a lasciare oltre metà della popolazione mondiale in uno stato perpetuo di vulnerabilità e minoranza in termini di potere - nonostante sia la maggioranza in termini di numeri.
Grazie a questo successo del caso-Svezia, altri Paesi hanno seguito l’esempio, adottando o sviluppando una Feminist foreign policy: dal Canada alla Francia, dal Lussemburgo al Regno Unito, dal Messico alla Germania.
Come dichiarato poche settimane fa dalla ministra degli Affari Esteri tedesca, Annalena Baerbock, diventa infatti sempre più chiaro ad alcuni leader del mondo che lo status quo della politica estera non funziona: «Le nostre crisi sono troppo gravi, le nostre sfide troppo severe per continuare a prenderle con leggerezza. […] È tempo di dichiarare, forte e chiaro, che supportiamo una politica estera femminista, una politica estera che rappresenti tutte e tutti». E proprio da questa prospettiva, la ministra tedesca Baerbock e la prima ministra svedese Andersson hanno annunciato l’invio di armi e supporto militare all’Ucraina: in difesa del popolo ucraino, delle donne e dei bambini, e non in primis in difesa degli interessi svedesi o tedeschi.
E così, mentre in altri Paesi ci si pone domande e si cerca di cambiare approccio alle decisioni di politica estera, in Italia continuiamo a vedere i venti di guerra gestiti al 99.9 per cento da leader uomini. Senza nessun punto di domanda sulla mancanza lampante di donne attorno ai tavoli decisionali, sull’incoerenza valoriale di rifiutare il gas russo ma comprare quello di altri Paesi aggressori. Insomma, senza discussioni costruttive o informate su come re-immaginare la politica estera italiana attuale, non solo dal punto di vista dei nostri interessi e fabbisogni immediati, che sono innegabili, ma anche dei nostri valori (che passano velocemente in terzo piano quando intralciano) e della nostra visione a lungo termine.
È arrivato quindi il tempo di scuotere le acque anche da noi. Di iniziare a farci e a fare domande, di discutere di questi temi e far sì che anche l’Italia si faccia promotrice di un modo diverso di pensare e fare politica, interna ed estera. Di un modello che dia spazio alla diversità di voci, prospettive e competenze nel definire il nostro presente e futuro e che sappia risolvere tante problematiche e tensioni al livello locale e globale, rendendo la politica lo strumento di pace, solidarietà ed eguaglianza di cui abbiamo tutti bisogno.