Il rincorrersi di eventi epocali, dal Covid alla guerra, ha messo a nudo le fragilità di una Ue incapace di un indirizzo comune. A partire dalle politiche sull’immigrazione

Il cambiamento è qualcosa di inevitabile. E le società sono fondamentalmente in grado di assorbire anche i cambiamenti più importanti. Tuttavia, ciò che l’Occidente ha vissuto negli ultimi 20 anni difficilmente rientra nella categoria di cambiamento, ma piuttosto in quella di terremoto. Attacchi islamisti, guerra in Iraq e Afghanistan, crisi bancaria, Brexit, cambiamento climatico, pandemia, guerra in Europa: la parola “crisi” è stata usata in modo quasi inflazionato dalla stampa europea.

 

In queste situazioni l’Unione Europea non solo è stata esposta a gravi shock esterni, ma è anche stata messa radicalmente in discussione come progetto politico, e si è trovata a dover reagire più rapidamente di quanto fosse abituata a fare. Infatti, ciò che era iniziato come una serie di cambiamenti ha assunto una nuova qualità con l’insorgere della pandemia di Covid-19. Gli europei si sono resi conto in maniera abbastanza brutale di quanto dipendessero da altri continenti: nel momento in cui i porti cinesi sono stati bloccati, le catene di approvvigionamento si sono interrotte in un batter d’occhio. L’unico lato positivo è stata la presa di coscienza, dopo le prime reazioni dal sapore nazionalista, che la solidarietà può essere la forza dell’unione, così come la ricerca medica comune, grazie a cui è stato possibile mettere sul mercato dei vaccini molto efficaci, comprati e distribuiti dall’Ue.

 

Ma appena i ristoranti, gli uffici e le università riprendevano il loro ritmo normale, ecco che scoppia la guerra russa contro l’Ucraina. Una guerra che si sarebbe potuto (e dovuto) anticipare. Invece, chiudere gli occhi davanti all’evidenza sembra essere una strategia politica ben diffusa. La guerra iniziata dalla Russia aggiunge un altro elemento di fragilità al quadro europeo: la dipendenza energetica. Le leggi del mercato liberale e mondiale non funzionano se le regole vengono ignorate dagli attori maggiori. Quello che sembrava certezza si trasforma in dubbio, il sistema della globalizzazione dominato dalla logica dei prezzi bassi ormai è fallito. Voler trasformare i regimi autoritari attraverso i rapporti commerciali – dottrina cara soprattutto alla Germania – si è rivelato illusorio.

 

L’Ue, troppo lenta nelle sue decisioni, e poco capace di andare oltre gli interessi nazionali dei 26, si è svegliata in un mondo in piena trasformazione, veloce e profonda. L’esempio più azzeccato è l’incapacità europea di trovare un accordo su una politica migratoria comune. Nei prossimi anni le persone continueranno a cercare di entrare nell’Ue - e l’invecchiamento della società europea ha un estremo bisogno di questa immigrazione per ragioni economiche - ma invece di trovare un accordo su compromessi efficaci, gli Stati europei non fanno altro che scaricarsi l’un l’altro sia le responsabilità che le persone interessate. Il mondo di oggi non è più quello del 2000 ed è inverosimile pensare che le risposte alle sfide di questo secolo possano essere quelle del Novecento.

 

I centri di potere politico, economico e anche militare sono ormai la Cina e gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno un vantaggio fondamentale rispetto agli europei: possono agire velocemente e in modo omogeneo per tutto il Paese. Lo dimostra ad esempio l’Inflation reduction act che non è solo uno strumento di protezione della propria industria e degli investimenti in America, ma anche un gigantesco programma nella lotta contro il cambio climatico.

 

Dall’altro lato, la Cina prosegue sulla sua strada strategica per diventare il leader mondiale in un futuro ormai prossimo. Investimenti nelle industrie e infrastrutture chiave dei Paesi europei e in territori ricchi di materie prime fanno parte di un piano globale del 21esimo secolo, tanto quanto il programma di modernizzazione delle infrastrutture nel proprio Paese.

 

L’Ue potrebbe avere voce in capitolo, ma solo se parlasse con un’unica voce – nelle riunioni G7 sono 3 i Paesi membri dell’Ue, e anche nel G20 gli europei avrebbero più peso se parlassero per l’Unione intera: insieme abbiamo un capitale enorme grazie al mercato comune, alla popolazione di 450 milioni di persone, alla moneta comune e alla ricerca capace di competere con il mondo intero. Questo semplice fatto diventerà ancora più rilevante quando il processo di adesione dei Paesi dei Balcani occidentali, della Moldavia e dell’Ucraina – processo fondamentale ed inevitabile da un punto di vista geostrategico – arriverà a compimento.

 

Come possiamo allora meglio unire le nostre forze? Attraverso riforme profonde delle istituzioni europee che ne rimodellino il funzionamento. Questo approccio includerebbe una chiara distribuzione delle competenze, la legittimazione democratica delle decisioni (rafforzamento del Parlamento europeo), decisioni a maggioranza nel Consiglio europeo e una riduzione del numero di commissari.

 

È chiaro che cambiamenti così profondi sono difficili da mettere in atto. Per prima cosa ci vorrà il consenso delle popolazioni. Si sa che il prestigio delle istituzioni comuni è debole, e l’ultimo scandalo di corruzione al più alto livello ha ulteriormente minato la fiducia dell’opinione pubblica. Anche se il fondo salva Stati “NextGenerationEU” è stato accolto favorevolmente, il sostegno della popolazione all’Ue non è garantito.

 

Lo scetticismo nei confronti dei compromessi lenti e complicati - e che spesso possono essere bloccati dai singoli Stati - sta crescendo, soprattutto tra le giovani generazioni. Chi vuole difendere la democrazia e l’integrazione europea deve mantenere la promessa di una prosperità che possa essere percepita da tutti. Quando i regimi autoritari sembrano essere in grado di difendere gli interessi nazionali con maggiore successo e in modo più mirato, questo diventa un problema per la democrazia nel lungo periodo.

 

L’Europa deve affrontare una scelta: o continua a fare “business as usual”, nel qual caso ci stiamo dirigendo verso un muro e presto saremo solo spettatori della competizione tra Stati Uniti e Cina; oppure ci affermiamo con la nostra idea di un ordine di base libero e sociale, avendo la forza di farlo con una voce unica e unita e di prendere tutte le misure politiche, economiche, finanziarie, di politica della ricerca e infine anche di difesa necessarie per raggiungere questo obiettivo. È questo il grande paradosso europeo: gli Stati nazionali, per sopravvivere, devono condividere la loro sovranità in un’Unione rafforzata dall’interno.