Vinse due ori olimpici nel 1012, ma non bastarono. Rimase un cittadino di serie B e le medaglie gli vennero ritirate. Ora un libro racconta la sua storia

Il 29 luglio 1912, il presidente degli Stati Uniti scrive una lettera a Jim Thorpe. William Howard Taft si congratula per il successo olimpico, e in un passaggio si lancia: «Lei ha stabilito un alto standard di sviluppo fisico, ottenuto solo attraverso una vita retta e un pensiero retto. La sua vittoria servirà a tutti come incentivo per migliorare quelle qualità che caratterizzano il tipo ideale di cittadino americano».

 

Dal momento che è obeso, l’anno prima pesava 150 chili e adesso segue una dieta parecchio indulgente (si concede ancora una bistecca a colazione), Taft pare riproporre in chiave comica l’insistenza del suo mentore, Theodore Roosevelt, sulla buona forma fisica. Ma nelle poche righe della lettera c’è un’altra enorme ipocrisia: in quanto nativo, Thorpe non è un cittadino americano. Lo status giuridico è invece di ward: incapace di badare a se stesso, sottoposto alla protezione di un tutore - lo Stato. Qualcosa che proviene dal 1831, quando la Corte Suprema aveva sostenuto che il rapporto fra “tribù” e governo federale fosse analogo al rapporto tra il ward e il suo tutore. Di fronte alla legge i nativi sono di fatto minorati, ancora nel 1912. E nonostante questa incapacità presunta di stare al mondo, Thorpe ha appena aggiunto due ori al medagliere degli Stati Uniti.

 

L’ipocrisia di Taft si assomma a quella di un campione del razzismo, James Sullivan, il maggiorente dell’Amateur Athletic Union, al quale a Stoccolma era mancato il pudore dopo le gare di Pentathlon: «Thorpe è un vero americano, se mai ce n’è stato uno», aveva dichiarato. 

 

 

Riceverà la cittadinanza negli ultimi giorni del 1916: un premio individuale, una deroga meritata in quanto campione. Somiglierà a quando di colpo, dopo le vittorie di Stoccolma, i media statunitensi avevano smesso di usare l’epiteto Indian per Thorpe, preferendo American. Né sarà diverso dalla millanteria di un senatore durante il torneo dei college 1912: se Carlisle vincerà questa partita ti procurerò la cittadinanza. Il diritto come un ottenimento, qualcosa da conseguire.

 

La separatezza che Thorpe avverte nei confronti della società statunitense non verrà suturata, lui continuerà a percepirsi estraneo: «[Era] parte del mondo là fuori ma ha sempre sentito una distanza», spiegherà il figlio Bill.

 

Otto anni più tardi, grazie al servizio militare prestato durante la Grande Guerra, la cittadinanza sarà concessa a tutti i nativi. Comunque, l’Indian Citizenship Act del ’24 non porterà vera uguaglianza, mantenendo lo status di ward: cittadini sì, ma non degni della piena autonomia. Ancora quattro anni dopo, il rapporto Meriam (finanziato dalla fondazione Rockefeller e sottoposto al dipartimento degli Interni) stabilirà che i nativi sono, rispetto alla media del Paese, gravemente più poveri, peggio nutriti, serviti da strutture educative e sanitarie di peggior qualità. Essere citizen non significherà nemmeno avere diritto di voto: per l’equivalenza dovranno passare decenni. La Costituzione lascerà liberi i singoli Stati di ammettere i nativi alle urne oppure no, e il diritto verrà riconosciuto in tutti gli Stati Uniti (l’ultimo a decidersi sarà il New Mexico) quando ormai sarà il 1962: ci si andrà preparando a raggiungere la Luna, e Thorpe sarà morto da una decina d’anni.

 

Nella stessa settimana del 1912 in cui il ward trionfava alle Olimpiadi, negli Stati Uniti usciva un cortometraggio dal titolo “The Fall of Black Hawk”. Era una celebrazione della vittoria bianca su Falco Nero e tratteggiava l’avo di Thorpe come un assetato di guerra, leader di una nazione che odiava gli americani e violava i trattati.

 

Il nuovo mezzo del cinema, ancora muto, aggiungeva il suo carico di stereotipi alla rappresentazione dei nativi. Sotto i rulli di pellicole come questa si rinforzavano le basi narrative che ridussero i pellerossa, almeno fino al secondo dopoguerra, a una dimensione piatta oltre che razzista. Quasi mai si dava loro dignità di personaggi: se ne facevano, invece, sgradevoli figure senza volto, ostili o ridicole presenze prive di spessore umano, antagonisti estranei e inconoscibili. Massa minacciosa e disumana da abbattere. Nei primi decenni della sua esistenza, il cinema fu in grado di ricorrere come unica alternativa alla figura-cliché del “nobile selvaggio”: romantica, resa possibile dal compimento dello sterminio, sempre coniugata al passato remoto e quindi depotenziata. In ogni caso, l’identità nuova si costruiva per negazione. Mentre si confermavano le paure, si riaffermava il senso di superiorità della società statunitense, e si giustificava l’azione dei bianchi - il genocidio dei nativi, l’appropriazione del Nordamerica. Lo si capiva già mentre stava avvenendo: nel 1910 una delegazione di Chippewa si recò a Washington dal presidente Taft per protestare contro le distorsioni del cinema.

 

L’avvento del sonoro allungò poi le ombre di selvaggi inevitabilmente sanguinari o idioti, quasi per natura alcolizzati, di certo meschini, capaci solo di grida barbariche. I nativi sul grande schermo non avevano quasi mai voce. Al massimo qualche battuta, magari inarticolata e comunque in una lingua fasulla. Capitava che venisse indicato di scandire appena le frasi, in modo che in postproduzione si potesse invertire l’audio senza problemi di sincronizzazione con le labbra, ottenendo una parlata al contrario, aliena, incomprensibile. Ma spesso i nativi non erano abbastanza indians: dovevano imparare a risultare autentici, secondo un copione scritto da gente che di nativi non sapeva nulla.