Un luogo di cura dei disturbi mentali che galleggia. A Parigi. E la telecamera del grande documentarista Nicolas Philibert

Sulle rive della Senna, non lontano dalla gare de Lyon, c’è un barcone diverso da tutti gli altri. Ormeggiato sulla Rive droite, si chiama l’Adamant ed è stato progettato da un collettivo che riuniva architetti, psichiatri e pazienti desiderosi di trovare un luogo finalmente adatto a loro. Con i suoi 650 metri quadrati e i suoi due piani tutti con finestre affacciate sul fiume, l’Adamant è infatti molte cose insieme. È un centro diurno aperto dal 2010 che dipende dal Polo psichiatrico di Parigi-Centro. È una miracolosa, periclitante utopia in cui pazienti di ogni genere e età circolano liberamente mescolandosi fra loro e con il personale curante, assieme a cui tengono anche i conti e organizzano la vita sociale, seguendo i più vari atelier (musica, cucito, pittura, lettura, cinema, relax, pelletteria...).

 

Ma è anche un vasto e prodigioso teatro in cui Nicolas Philibert, il grande documentarista di “Essere e avere”, si è immerso con due telecamere e un pugno di tecnici per sette mesi («Sempre poco alla volta, bisogna essere discreti»). Non per “catturare” l’atmosfera del luogo, bensì per prolungare quell’esperienza in un film a dir poco appassionante, “Sull’Adamant”, in sala dall’11 al 13 marzo, in concomitanza con il centenario di Franco Basaglia, dopo aver vinto l’Orso d’oro a Berlino 2023 e aver ispirato due altri docu girati da Philibert sempre nel polo Paris-Centre: l’ospedale Esquirol, che ospita i casi più difficili (“Averroès & Rosa Parks”, appena visto fuori concorso sempre alla Berlinale). E “La machine à écrire et autres sources de tracas”, cioè “La macchina per scrivere e altre fonti di stress”, dedicato agli infermieri che si recano a domicilio dai pazienti in crisi con oggetti d’uso quotidiano, tuttora al montaggio ma destinato a uscire in Italia come gli altri grazie a I Wonder.

 

«Non so come sono riuscito a fare “Sull’Adamant”», dice Philibert scandendo le parole: «Posso solo dire che mi preparo poco. Ho scoperto questo luogo del tutto singolare nel paesaggio della psicoterapia grazie a Linda de Zitter», psichiatra seguace di Félix Guattari e compagna del regista. «Questo genere di posti di solito sono chiusi. Questo invece è aperto, in ogni senso, e in perenne effervescenza. Ai suoi workshop partecipano filosofi, scrittori, storici. Sapevo che entrarvi con la telecamera sarebbe stato interessante. L’essenziale era non applicare programmi, non avere un discorso già fisso in testa né messaggi da inviare. Insomma mi sono lasciato andare. I pazienti mettono l’asticella molto in alto in materia di esigenze e di riflessione. Bisognava essere all’altezza, entrare in sintonia».

 

Una scena del film “Sull’Adamant”

 

In un contesto così delicato, il primo scoglio è proprio la telecamera. «Più che tecnico è un problema etico. So bene che una cinepresa è uno strumento di potere. Bisogna capire come non abusarne», dice Philibert che da più di trent’anni lavora su mondi chiusi, autocentrati, spesso invisibili. «Ai miei soggetti dico sempre di sentirsi liberi di apparire o no, senza sensi di colpa. Si può essere disponibili oggi e non esserlo domani, o viceversa. Del resto, filmare qualcuno è sempre rinchiuderlo in uno spazio-tempo. Un atto di grande responsabilità. In quale immagine “congelerò” questo o quel paziente? In psichiatria questa domanda è continua. Cerco sempre di non riprendere le persone a loro insaputa, o a loro danno. Se qualcuno delira non gli punto certo addosso l’obiettivo. Non voglio trasformare la sofferenza in spettacolo. Detto questo, a riprese ultimate il montaggio è affar mio».

 

Ma è proprio al montaggio che Philibert elabora la sua portentosa arte del ritratto usando pause, scorci, paesaggi visivi e sonori, per tessere una partitura che dà profondità e sollievo al dolore, alla solitudine, allo smarrimento di questi pazienti spesso peraltro colti, creativi, capaci di dipingere o di scrivere favole e canzoni sbalorditive, o di dare un significato inedito a canzoni famose come quella che apre il film in una scena memorabile, “La bombe humaine” dei Téléphone.

 

“Sull’Adamant” sarà in sala dall’11 marzo

 

«La psichiatria è una lente d’ingrandimento, uno specchio che la dice lunga sulla nostra umanità. Anche se oggi tra tagli, riduzione del personale, burocratizzazione, medicalizzazione, la psichiatria pubblica non smette di peggiorare. Dei “pazzi” si parla ormai solo in termini di pericolosità. Come se non volessimo più vederli». Se l’Adamant resiste insomma, «se è ancora vivace e attraente, per i pazienti come per gli operatori sanitari», è perché non cede alla logica della performance e dei risultati. Così come il film interroga ed emoziona proprio perché non cerca di estrarre a tutti i costi un sapere da questi frammenti di esistenze, ma si mette in ascolto.

 

«Una volta dentro l’Adamant, gli incontri con i pazienti hanno cambiato tutto», dice Philibert: «Mi hanno incoraggiato ad affrontare i miei dubbi. Alcuni mi hanno perfino detto: Cos’è, hai paura di sfruttarci? Cosa credi? Saremo pazzi ma non stupidi!». E qui Philibert cita Jean-Louis Comolli, uno dei nomi storici dei Cahiers du Cinéma, da poco scomparso: «È questa la vera dimensione politica del cinema: far sì che, tra lo schermo e la sala, la dignità di alcuni sia riconosciuta da altri». Senza perdere di vista se stessi. «Ci ho messo tempo ad ammetterlo, ma se le persone incontrate girando il film mi erano così vicine è perché mi riportavano a me stesso, alle mie vulnerabilità». Non a caso forse, al cineclub de l’Adamant, non danno solo “Zanna Bianca” ma anche “Otto e mezzo”, “Effetto notte”, “Sotto gli ulivi”. In fondo il grande cinema è anche questo: un’ingorda macchina psichiatrica in servizio permanente effettivo.