L'estratto
«Il mio viaggio nella vita sconvolta degli yazidi»
Un libro racconta il mondo distrutto della comunità vittima di genocidio. Partendo dalla casa dove abita la famiglia di Sabah. Simbolo dell’accoglienza pur nelle difficoltà
Pubblichiamo un estratto da “La Luce di Șingal. Viaggio nel genocidio degli yazidi” di Sara Lucaroni (People, 2024, pp. 176, 16 euro). In alto, yazidi iracheni nel tempio di Lalish
Ghazi ieri sera doveva parlare con l’altro suo fratello, il padre di Sabah, e così ho conosciuto la sua famiglia. L’ho vista nella calma ieratica della loro casa, silenziosa e in penombra, ma ho toccato lo sgomento bruciante per la vecchia vita che hanno perduto all’improvviso. Il loro mondo è in subbuglio: c’è da cercare persone, riorganizzare, fare, combattere. Vivono tutti a Khanke adesso, un sobborgo vicino alla città di Duhok in cui gli sfollati hanno occupato case in costruzione, scuole, ponti, e dove è stato allestito un grande campo profughi interamente abitato da yazidi. La cittadina è quasi affacciata sulle sponde del lago nato dal Tigri dopo la costruzione della diga di Mosul nel 1980, e si è espansa al centro di due rami dell’acqua che ha penetrato la terra fin dentro le valli desertiche. La parte più vecchia dell’abitato è fatta di casine di terra attaccate le une alle altre tra stradine senza troppa logica, con le corti interne nascoste da cancelli di metallo. Dentro uno di quei cortili, pieno di bambini, c’è questa casa semplice. Le stanze sono quasi prive di mobilio e organizzate come un piccolo labirinto. Accanto alle porte, in alto, delle bambole sono state legate per la vita e fissate al muro. Ci siamo seduti alla luce fioca e giallastra con la schiena appoggiata alla parete, ed è allora che ho notato il marchio della famiglia: hanno tutti gli stessi identici occhi, grandi, allungati, neri, con un’involontaria espressione dolce anche quando non serve.
Per lungo tempo nessuno mi ha tradotto niente perché si parlava di affari di famiglia e il kurmancî, il dialetto curdo usato nel Nord del Kurdistan, non è il mio forte. (…) Le due sorelle di Sabah erano più interessate a me che ai discorsi gravi dei genitori e si sono fatte ritrarre. Senza parlare nessuna lingua comune ci siamo dette il nostro nome e abbiamo scelto insieme le foto che avevo scattato loro scartando quelle che non ci piacevano. Alla fine, una delle due si è sfilata dal collo una cordicina di filo bianco e rosso intrecciato e me l’ha regalata. Ho ringraziato abbracciandola. Una volta usciti mi sono fatta spiegare: si benedice a un fuoco speciale che in certe case viene alimentato in modo perenne, in occasione di due feste, a giugno e a dicembre. Lo indossano soprattutto i bambini e i giovani, è un amuleto, protegge dal male, anche quello che ci si insinua addosso a nostra insaputa. Ti ricorda il bene. Il mio primo contatto con la comunità yazida è stata la timidezza gentile di Sabah e della sua famiglia, e quella casa con la luce fioca che mi ricordava quella di mia nonna Lina certe sere d’inverno, trent’anni fa, in un posto lontanissimo da lì. È vero che siamo tutti figli e nipoti della stessa luce. La cordicina l’ho legata al polso. L’ho indossata con orgoglio e gratitudine perché la persona che me l’ha donata se ne è privata, come segno di amicizia. E ho visto in poche ore che chiunque incontrassi – anziani, giovani, capifamiglia o bambini – vedendo quel braccialetto ringraziava senza motivo, lo indicava con sorpresa o si batteva la mano sul cuore dicendo «ser çava», che letteralmente vuol dire «sui miei occhi». È davvero molto più di «sei il benvenuto».