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12 novembre, 2025Paul Biya, 92 anni e in carica dal 1982, è stato confermato presidente del Camerun. Protestano i giovani, che denunciano brogli e chiedono un cambiamento. Si rischia un’escalation di violenze
Il 12 ottobre a Garoua, nel Nord del Camerun, la sera stessa del voto per le elezioni presidenziali, è scoppiato un conflitto a fuoco davanti a un seggio tra agenti della gendarmeria nazionale e sostenitori del candidato dell’opposizione, Issa Tchiroma Bakary. Il giorno dopo, a Douala, centro nevralgico per l’economia del Paese, e a Dschang, nell'Ovest, decine di manifestanti scesi in strada per protestare contro le irregolarità nello spoglio sono stati uccisi o feriti in un’azione repressiva di inusitata violenza. Stesso copione a Youndé, la capitale del Camerun, quando il 26 ottobre il Consiglio Costituzionale ha dichiarato vincitore Paul Biya, 92 anni, da 43 al potere.
Era chiaro che fosse tutto previsto. Come era scontato che i contestatori del più longevo capo di Stato al mondo non avrebbero accettato di buon grado la sua rielezione. Biya è stato riconfermato con il 53,66 per cento dei voti, a fronte dei risultati bulgari delle precedenti presidenziali con oltre il 70 per cento delle preferenze. Il principale contendente, Tchiroma, secondo i dati ufficiali si è fermato al 35,19 per cento. Ma la legittimità dell’ottavo mandato del contestato capo di Stato è alquanto indebolita: gran parte dei camerunensi non crede nella sua vittoria elettorale.
Innumerevoli i ricorsi e le denunce per brogli. Nessuno accolto. E le proteste si sono intensificate. Migliaia i manifestanti, soprattutto i giovani, alla ricerca di un cambiamento che passava per la cacciata dal potere per via democratica del presidente 92enne. La svolta che sembrava a portata di mano, visto il grande sostegno raccolto da Tchiroma, è stata negata con un esito del voto ritenuto “truccato”. L’esercito già alla vigilia delle elezioni aveva intensificato la presenza nelle strade, dispiegando un assetto da “stato di emergenza” che non sembra destinato a rientrare. La situazione di grande instabilità preoccupa i Paesi dell’intera regione, ma anche gli attori internazionali che hanno interessi in Camerun.
In primis, la Francia che ha espresso «grande preoccupazione per il quadro politico post elettorale e per le implicazioni legate alle contestazioni della legittimità del voto, potenzialmente destabilizzanti per il Paese». Alla luce dei fatti, appare evidente che l’attuale contesto faccia temere evoluzioni incontrollabili. Se prima il consolidamento del presidente uscente era auspicato e favorito da Parigi, a fronte della gestione poco trasparente delle procedure elettorali e della repressione brutale del dissenso, la situazione è decisamente mutata.
Il malcontento filtrato dall’Eliseo, che mentre scriviamo non si è ancora complimentato per la rielezione di Biya, è evidente. Le accuse di frodi elettorali e le repressioni, configurano un futuro incerto per l’equilibrio interno, caratterizzato da politiche fortemente centralizzate. La percezione dilagante dell’uso strumentale delle istituzioni per mantenere il potere, alimenta da tempo il malcontento dei vari settori della società civile. Soprattutto quelli produttivi, che ora temono i contraccolpi per le tensioni sociali e le proteste post-elettorali. Le manifestazioni seguite alle presidenziali, represse con la forza, evidenziano un tessuto sociale affatto succube del regime. La violenza e le misure autoritarie delle forze di polizia stanno aumentando il rischio di un'escalation, destabilizzando ulteriormente un Paese già segnato dalla “questione anglofona”.
Dal 2016, le regioni del Nord-Ovest e del Sud-Ovest, di lingua inglese, vivono in uno stato di conflitto permanente con il governo francofono di Youndé. Con enormi risorse naturali e una popolazione giovane, seppur marginalizzata, il Camerun è sempre stato una delle realtà più appetibili nel continente africano. Non a caso, la posizione assunta sia dalla Francia che dall’Italia, tra i partner prioritari del Paese che punta a rientrare anche nel Piano Mattei, spinge «al ripristino della calma e al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali», come chiesto a gran voce dall’Unione europea. Un segnale chiaro dell’interesse della comunità internazionale, che segue con attenzione gli sviluppi.
In particolare, la dichiarazione del governo francese, che invita «a ripristinare le garanzie di sicurezza e il rispetto dello stato di diritto», appare come un tentativo di pressione per favorire un clima di riconciliazione. Tuttavia, non è escluso che un messaggio politico così diretto possa contribuire ad aumentare la tensione tra chi sostiene il regime di Biya. Al momento, le ipotesi sulle future evoluzioni non possono prescindere dal mantenimento dello status quo, viste le crescenti dimostrazioni di dissenso. Se il governo continuerà a negare le richieste di riforme e di rispetto dei diritti, è inevitabile che le proteste si intensifichino, con un’ulteriore escalation.
Questo scenario potrebbe portare a pressioni internazionali più incisive, comprese sanzioni. Solo in questo modo le autorità camerunensi potrebbero rispondere alle richieste di riforme avanzate da una larga fascia di popolazione. Ma, a oggi, non sembra prevalere una logica politica orientata in tal senso. Un’evoluzione verso un processo di transizione pacifica resta poco probabile, con effetti destabilizzanti anche oltre i confini del Camerun. Nei giorni successivi alle elezioni camerunensi, sono andati al voto anche Tanzania e Costa D’Avorio. Alla riconferma dei rispettivi presidenti, la Generazione Z, movimento giovanile che chiede “il cambiamento” in questi tre importanti Paesi, ha dato sfogo al malcontento con proteste pacifiche represse, anche in questo caso, con violenza.
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