Ovviamente, non può farlo». Sembra un’altra America quella in cui Paul Ryan, allora speaker repubblicano della Camera, dava per scontato che il presidente non avesse alcun potere di modificare un emendamento costituzionale con un ordine esecutivo. Era l’ottobre del 2018 quando Donald Trump espresse la volontà di revocare con una firma la cittadinanza per diritto di nascita. «Incostituzionale», bollò la terza carica dello stato. E infatti non si fece nulla. Rimandata a tempi più maturi, potremmo dire con il senno di poi. Il 20 gennaio scorso, nel primo giorno alla Casa Bianca da quarantasettesimo presidente, abolire lo ius soli è stato uno dei primi provvedimenti. Bloccato nell’immediato da un paio di giudici federali, ma applaudito dai suoi. A tre settimane dall’insediamento, e soprattutto dopo una scarica di azioni che hanno sfidato la legalità e l’equilibrio costituzionale, sembra quasi che il rispetto delle norme sia un esercizio ozioso a cui il commander in chief non è interessato.
«Stiamo scoprendo che la tenuta del sistema democratico è più fragile e vulnerabile di quanto pensassimo», spiega a L’Espresso Charlie Sykes, voce autorevole del movimento Never Trump, tra i fondatori della piattaforma mediatica The Bulwark. Di certo non un commentatore di sinistra, vicino all’ala progressista. Sykes è un conservatore che si è allontanato dal partito repubblicano con l’arrivo in politica dell’imprenditore newyorchese.
«Ad essere straordinari sono la velocità con cui sta accentrando il potere e il modo in cui le altre istituzioni gli permettono di farlo, Congresso incluso. Il presidente ha assoluto controllo del partito repubblicano», spiega l’autore di “How the Right Lost Its Mind” (Come la destra ha perso la testa). «Molte persone a Washington hanno paura; temono ritorsioni e per questo si sono allineate. Basti guardare a come hanno approvato i membri del gabinetto, ma anche la riluttanza di parlamentari e senatori a dire “no”. Negli Usa esistono tre rami di governo e la presidenza è solo uno di essi».
Se è vero che tutti i commander in chief moderni hanno cercato di ampliare i confini del proprio potere, quello che accade oggi alla Casa Bianca è un unicum, per l’enorme autorità che Trump si sta attribuendo. In una raffica di ordini esecutivi, ha preso di mira l’immigrazione, la lotta al cambiamento climatico, le politiche di genere e quelle di inclusione. Ha licenziato con effetto immediato almeno dodici ispettori generali, incaricati di supervisionare il lavoro delle agenzie federali, violando la norma che impone un preavviso di almeno trenta giorni al Congresso. Parlando di “invasione”, ha sospeso le leggi che regolano la richiesta di asilo, così come ha rinviato il divieto per il social TikTok di operare negli Stati Uniti. Sta cercando di smantellare l’intero apparato federale. Ha tentato di congelare i finanziamenti da cui dipendono settori cruciali come istruzione, sanità e aiuti esteri (azione temporaneamente bloccata dal giudice distrettuale Loren L. AliKhan). Negli stessi giorni, la sua amministrazione ha inviato un’e-mail a due milioni di dipendenti federali, offrendo una buonuscita pari a otto mesi di stipendio, accompagnata da una velata minaccia: accettare l’offerta al netto di un futuro incerto. Questo, nonostante la Costituzione attribuisca al Congresso il potere esclusivo di autorizzare e approvare la spesa pubblica, stabilendo quali programmi finanziare e come utilizzare i fondi. L’esecutivo, per legge, ha l’obbligo di amministrarli ed erogarli, non di sospenderli.
Deus ex machina, Elon Musk. Il vero presidente, per i malevoli, colui che senza essere stato eletto punta a plasmare il Paese sul modello delle sue aziende creando il mostruoso primo capitolo di questa nuova oligarchia a stelle e strisce. Il patron di Tesla, X e SpaceX, a capo dell’ufficio Doge (Department of Government Efficiency) incaricato di tagliare gli sprechi della macchina burocratica, ha chiuso unilateralmente Usaid, l’agenzia per lo sviluppo internazionale creata negli anni Sessanta; il suo staff ha ottenuto l’ok per accedere ai dati sensibili del dipartimento del Tesoro (bloccato anche questo da un tribunale di Washington dopo la causa intentata da diciannove Stati).
Una girandola di decisioni che ha esaltato il popolo Maga, che finalmente vede ridursi il peso del governo federale, ed ha gettato nel panico tutti gli altri. È chiaro che il tradizionale sistema di “checks and balances” (pesi e contrappesi), vista la passività del Congresso, non stia funzionando. Ad avere in mano il potere di arginare le azioni di Trump, ora, sono solo i tribunali. Sono già state presentate 40 cause legali. «Stiamo vivendo la più grande sfida che l’ordine costituzionale abbia affrontato forse dai tempi della guerra civile. E non sto esagerando», commenta ancora Sykes.
Molti esperti ritengono che dietro questo apparente caos si celi un piano preciso del presidente per espandere il suo potere: arrivare davanti alla Corte Suprema. «Sta violando consapevolmente la legge, confidando che le cause arrivino fino ai nove giudici del massimo tribunale», ci spiega Peter Shane, studioso di diritto costituzionale e docente alla New York University. «Spera che la Corte Suprema - la più conservatrice degli ultimi novant’anni (con tre giudici nominati da lui) - gli dia ragione e stabilisca, ad esempio, che il Congresso non lo obblighi a spendere denaro se lui non lo crede opportuno, e che possa licenziare (come ha già fatto), un funzionario del National Labor Relations Board, nel caso ritenesse incostituzionale l’esistenza di agenzie indipendenti». Secondo Shane la decisione della Corte di concedere a Trump l’immunità parziale relativa alle azioni compiute durante il mandato, aumenta la sua sicumera. «Hanno inventato la giurisprudenza per proteggerlo». Tuttavia, secondo lo studioso, alcune delle ultime mosse sono talmente incostituzionali che sarebbe «scioccante se la Corte gli desse ragione. Distruggerebbe la propria credibilità».
Se i saggi di Washington si esprimessero contro, potrebbe concretizzarsi un’altra eventualità: «il ramo esecutivo - ragiona ancora il professore - potrebbe decidere di ignorare la legge». Una paura che condivide anche Sykes, quando parla di crisi costituzionale: «Cosa succederebbe se Trump decidesse di non obbedire alla Corte? Ha l’immunità e può usare il potere di grazia». Sulla carta, ipotizza, «potrebbe dare il permesso agli uomini della sua amministrazione di violare le norme, abusando dei diritti dei migranti, reprimendo i manifestanti. Protetti da amnistia presidenziale, non risponderebbero delle loro azioni».
Un vaso di Pandora aperto dal democratico Joe Biden quando, nell’ultimo giorno di mandato, concesse la grazia preventiva ai membri della sua famiglia e ad altri personaggi politici nel mirino del leader repubblicano. «Trump lo avrebbe fatto comunque - spiega ancora il commentatore politico - Ha liberato i rivoltosi del 6 gennaio. Tutti credevano che avrebbe distinto tra chi ha attaccato la polizia dagli altri. Invece ha perdonato tutti. Questa è una chiara indicazione per il futuro: se qualcuno commette violenza per conto suo, lui è disposto a concedergli l’impunità». È un momento caotico che potrebbe diventare pericoloso. «Non ci siamo mai trovati in una situazione del genere. Penso che gli americani abbiano sempre creduto che i fatti accaduti in Germania, Ungheria o in Italia non potessero mai accadere qui. Ora si stanno rendendo conto che invece è possibile», conclude, alludendo al rischio di derive autoritarie.