L'ex governatore della Fed si dice pentito per essersi fidato dei banchieri. Ma ora l'amministrazione sta facendo lo stesso sbaglio

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Se c'è una cosa positiva che questa crisi finanziaria ha portato con sé è che la reputazione di Alan Greenspan è stata fatta a pezzi. Per anni il 'genio' è stato trattato con deferenza da una stampa adulatrice e da politici di entrambi gli schieramenti partitici, sopraffatti dalle sue presunte prodigiose facoltà di mantenere l'economia statunitense in espansione. Adesso, mentre ci lambicchiamo il cervello per capire come sia possibile che le banche di Wall Street sono state autorizzate a far saltare in aria la cosiddetta economia reale, tutte le strade ci riconducono all'uomo che è stato a capo della Federal Reserve per 18 anni.

È stato Greenspan a decidere che sarebbe stato un errore per il governo immischiarsi e regolamentare i derivati, un'attività produttiva bancaria ombra da svariati trilioni di dollari. I rischi erano "tenuti sotto controllo dai privati", dichiarò con impassibile cipiglio nel 1994 a una sottocommissione del Congresso. "Di per sé, non vi è nulla nella regolamentazione federale che la renda migliore della regolamentazione di mercato". Lasciamo che il mercato si controlli da solo, insomma.

Pochi anni dopo, nel 1999, quando le consumer banks - quelle alle quali affidiamo tutti i nostri risparmi - vollero impegnarsi maggiormente in questo mercato così rimunerativo fu Greenspan a ritenere che sarebbe stata una buona idea aiutarle. Questo significò togliere di mezzo quel muro di protezione che aveva fino ad allora impedito alle banche di lanciarsi in investimenti ad alto rischio. Dopo qualche anno ancora, nel 2004, le cinque più grandi banche di investimento (extra-grandi, perché Greenspan aveva autorizzato una miriade di fusioni) riferirono che le cose stavano andando a tal punto bene - specialmente nel mercato in rapida espansione dei 'prodotti di debito ' garantiti da prestiti ipotecari - che "avrebbero apprezzato moltissimo se fosse stata abolita un'ulteriore norma fondamentale". Alludevano alle ordinanze che fissano un limite al loro indebitamento e alla quantità di denaro in contanti che devono avere a disposizione per farvi fronte. Ancora una volta Greenspan non mosse obiezione alcuna, e di fatto contribuì a spianare la strada alle banche, così che potessero accollarsi rischi sempre più grossi e numerosi.

Adesso sappiamo che quelle furono decisioni cruciali, che servirono a mettere insieme una bomba economica a tempo: istituti finanziari di dimensioni colossali che si occupavano di una miriade di funzioni quanto più disparate possibili (banche, broker, assicurazioni); strumenti finanziari che opprimevano le banche con un livello di indebitamento sconvolgente (33 a 1 nel caso di Bear Stearn); un'attività produttiva da molti trilioni di dollari che si basava sul confezionamento e il commercio di debiti che la gente comune faceva per la propria casa. Un settore bancario parallelo, insomma, che era incredibilmente affrancato dalle regole federali. Ecco dunque la bolla, autorizzata e legittimata a gonfiarsi perché enormemente redditizia per i broker che trattenevano le loro commissioni, e per i banchieri, che a fine anno rastrellavano bonus sulla base dei risultati raggiunti. Tutto questo incredibile apparato, però, si reggeva di fatto su un'unica scommessa sbagliata: che il prezzo degli immobili avrebbe continuato a salire per sempre, consentendo alle banche di non affrontare mai il giorno della resa dei conti. Invece, alla fine, quando il prezzo delle case ha iniziato a scendere, tutta l'irresponsabilità dei banchieri è venuta alla luce. Si sono ritrovati affogati da titoli di debito fasulli e senza valore.

Le banche hanno costruito un castello di carte, è vero, ma è stato Greenspan a rimuovere le normative e i regolamenti edilizi che hanno loro permesso di fare ciò che hanno fatto. In realtà, lui ha sempre sostenuto che il governo non dovesse finire con l'intralciare "oneste trattative tra professionisti". Ma adesso, che cosa ha da dire in proposito il 'genio'? Poche parole oltre a queste: è "sconvolto" che i banchieri abbiano potuto essere così indegni dell'altrui fiducia, così indifferenti alle nostre opinioni su di loro. Pare che Greenspan abbia sempre fatto affidamento sul loro interessamento per "la propria reputazione e la fiducia che essa alimenta". Che lui, d'altronde, "ha sempre ritenuto essere molto più importante di leggi e tribunali". "In un sistema di mercato basato sulla fiducia, la reputazione ha un valore economico significativo", ha spiegato in un suo recente discorso: "Pertanto, sono profondamente angosciato constatando quanto ci si sia allontanati negli ultimi anni dall'avere a cuore la propria reputazione".

Ciò a cui Greenspan non ha fatto riferimento alcuno è che mentre le banche potrebbero non gradire di essere criticate dalle persone alle quali hanno venduto titoli spazzatura, i bonus che si sono intascate sono in ogni caso ciò che gli economisti definiscono "un significativo fattore mitigante".

Ed eccoci arrivati al dunque: il supervisore finanziario più potente del mondo credeva nell'onore. Adesso è stupefatto di constatare che nel sistema bancario la cavalleria è scomparsa. Ma la vera brutta notizia è un'altra: l'amministrazione Bush ancora adesso sta facendo affidamento sull'onestà dei banchieri, e questa sconsiderata fiducia continua a guidare ogni aspetto del piano che ha messo a punto per uscire dal caos finanziario.

Il 13 ottobre il segretario del Tesoro Henry Paulson ha convocato i direttori delle nove banche americane più importanti - Citigroup, Merrill Lynch, Bank of America, Morgan Stanley, JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Wells Fargo, Bank of New York Mellon e State Street - per illustrare loro un'offerta straordinaria. Il Tesoro è pronto a investire 250 miliardi di dollari dei 700 stanziati per il piano di salvataggio e a iniettarli direttamente nelle loro casse in cambio di titoli, mossa senza precedenti per semi-nazionalizzare il sistema bancario.

Nel meeting di quel pomeriggio con i nove presidenti, il Dipartimento del Tesoro ha dato il via al programma di salvataggio offrendosi di rilevare il corrispettivo di 125 miliardi di dollari in azioni di quelle banche. In cambio le banche dovrebbero riprendere a erogare nuovi prestiti, ponendo così fine a quella stretta creditizia che sta già provocando un'ingente perdita di posti di lavoro. Ma c'è un dettaglio di mezzo: Paulson di fatto non ha messo per iscritto la seconda parte dell'accordo così formulato. A quanto pare, è implicito e sottinteso che le banche useranno i nuovi soldi per ricominciare a erogare prestiti. John C. Dugan, un regolatore di alto grado del Tesoro che si è occupato di negoziare l'accordo con le banche, ha spiegato: "Non vi è alcun esplicito requisito legale che stabilisca che le banche devono erogare un certo quantitativo di prestiti. L'economia però funziona in modo tale che è nel loro stesso interesse farlo".

Purtroppo, molti banchieri non sono dello stesso avviso. Sembra infatti che siano piuttosto dell'idea che è maggiormente sensato da un punto di vista economico fare tutto ciò che vogliono con la manna dei contribuenti: accumularla, spenderla in bonus, utilizzarla per acquistare un'altra banca. Potranno davvero farla franca? Potranno davvero prendere miliardi di dollari dei contribuenti e decidere di non porre riparo al meccanismo del credito che loro stessi hanno compromesso, pur con tutto il corporate welfare che stanno ricevendo?

Senz'altro. Secondo Dugan, il regolatore ottimista in modo quasi commovente, il Tesoro non ha un meccanismo a sua disposizione in grado di monitorare in che modo le banche spendano i miliardi dei contribuenti. Tuttavia - ha pur messo in guardia - tutte le operazioni "saranno aperte alla valutazione dell'opinione pubblica". In altre parole, come Greenspan prima di lui, non fa affidamento su nuove norme o su accordi vincolanti, bensì sui banchieri e sulla loro preoccupazione di prendersi a cuore la loro stessa reputazione. Ancora una volta si dà per scontato che noi dobbiamo fidarci dei banchieri.

In conclusione, non fatevi ingannare dal discredito pubblico di Alan Greenspan: può anche darsi che egli stia ammettendo l'esistenza di un'"imperfezione sostanziale" nel suo ragionamento, ma la lezione non è servita.

traduzione di Anna Bissanti