Il male aveva assunto le forme più semplici. Angoli retti, superfici piatte, il marrone del legno e il grigio del cemento. Niente di elaborato, niente di raffinato. Manici di ferro per infilare i cadaveri nei forni
Questo autunno ho compiuto 51 anni. Oggi, per la prima volta in vita mia, sono stato in un campo di concentramento. Prima avevo visitato luoghi dove c'erano stati dei lager, ma dove i nazisti avevano fatto in tempo a cancellarne ogni traccia. Il campo di Majdanek, un quartiere di Lublino, è rimasto integro.
Era un pomeriggio freddo e sereno. Il cielo era privo di nuvole, c'era un poco di gelo e tutte le forme, tutti i contorni, tutte le cose, gli edifici, le recinzioni, le entrate avevano una limpidezza irreale. Corvi neri svolazzavano nell'erba secca. Decine di baracche di legno, dal colore delle vecchie case di campagna. Varcai un paio di soglie. C'era lo stesso odore di liquido per impregnare il legno della casa dei miei nonni. All'interno però si vedeva come erano sottili le pareti, composte da un'unica asse, e che non avrebbero dato alcun riparo dal gelo. Grandi spazi vuoti occupati da brande su cui dormivano in cinque, in dieci, in quindici, su materassi pieni di paglia o di trucioli. Il vuoto, il silenzio, l'immobilità di oggi, colpivano tanto più fortemente perché tutti loro, tutta quella confusione umana dei risvegli mattutini, tutto il brusio di quando bisogna alzarsi e iniziare ancora un altro giorno - tutto questo era scomparso nel nulla.
Il male aveva assunto le forme più semplici. Angoli retti, superfici piatte, il marrone del legno e il grigio del cemento. Niente di elaborato, niente di raffinato, niente di complicato. Manici di ferro per infilare i cadaveri nei forni. Bombole con l'ossido di carbonio avvitate alle pareti. Finestrelle sbarrate, dalle quali le SS potevano osservare la loro opera. Cemento grigio, legno marrone. La solitudine degli ultimi istanti. Laggiù, nella Polonia orientale, là dove, secondo gli ideatori, di certo aveva fine la civiltà, e dunque tutto diventava possibile.
La superficie è enorme e c'è parecchio da camminare. Da una baracca all'altra. Intorno al campo, la città. Palazzoni con appartamenti, gru, la silhouette della centrale termoelettrica con la sua alta ciminiera. Si vedono automobili, autobus, la vita. E qui, qui dentro, solo corvi neri che svolazzano e non si riesce a resistere all'impressione che siano gli stessi di quegli anni. Il sole rosso si avvicina lentamente all'orizzonte e conferisce al paesaggio una sorta di tetra bellezza. Sì, le torrette di controllo, nello splendore che precede la sera, hanno un aspetto seducente! So che è idiota, che è fuori posto. Ma oggi, quando me ne stavo laggiù e guardavo, mi sembrava che il tempo non scorresse affatto, che tutto avvenisse oggi, che lo scudo rosso del sole fosse una sorta di ammonimento vano.
Si avvicinò un pullman con dei giovani israeliani. Una delle tante gite nel mio paese, ormai per sempre legato alla Shoah. Altri cinquanta giovani ebrei portati in giro da Auschwitz a Treblinka, a Majdanek. E che poi distruggono le stanze d'albergo, per reagire in qualche modo al trauma. Sono andati all'edificio del crematorio a cantare le loro belle canzoni. Quando sono usciti di fronte a loro stavano 7-8 ragazzi ucraini. Dovevano essere venuti qui di loro iniziativa, per curiosità probabilmente, per un bisogno del cuore, forse. Ragazzi di poco più di vent'anni, con vestiti non troppo alla moda e non troppo cari. Volevano avvicinarsi ai giovani ebrei che venivano loro incontro. Volevano farsi una foto di gruppo con loro, sotto la bandiera israeliana. Non è stato possibile. Gli israeliani hanno sistemato la bandiera nell'autobus e sono ripartiti. I ragazzi ucraini si sono avvicinati all'uscita.
In questa storia non c'è nessuna morale. Volevo solamente raccontarvela. Forse negli ultimi giorni non mi è successo nulla di più interessante. O forse era l'unica possibilità per raccontarvi come il mio Paese è diventato una terra abitata dal male.