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Opinioni
giugno, 2011

Marchionne, quanti leccapiedi

Qualsiasi cosa dica o faccia il boss della Fiat, in Italia tutti si genuflettono: dai politici ai sindacalisti. Nemmeno Gianni Agnelli aveva una corte così devota di cavalier serventi. E lui se la ride

Che con il suo "l'Italia deve cambiare atteggiamento" Sergio Marchionne pretenda di presentarsi come il salvatore dell'industria nazionale non meraviglia più di tanto. La sicumera e una certa dose di megalomania sono diventate componenti abituali delle sue sortite pubbliche. Da quando poi gli è riuscito di sostituire con prestiti bancari i finanziamenti ricevuti dal governo Usa, l'amministratore delegato di Fiat-Chrysler sembra aver perso ogni freno alla brama di ridisegnare il mondo a sua immagine e somiglianza.

Ciò che lascia, viceversa, interdetti è la reazione di buona parte dell'establishment nazionale pronto e prono a riconoscergli un ruolo di supremazia assoluta. Alle sue parole di fastidio per le poche, in verità, critiche ricevute nel nostro paese si è scatenata una vera e propria gara alla più trista cortigianeria. Con l'aria di chi chiede scusa e pietisce perdono per allontanare da sé ogni dubbio, il ministro Paolo Romani s'è affrettato a ricordare che il governo Berlusconi ha fatto di tutto per aiutare la Fiat a piegare i sindacati. Il suo collega Maurizio Sacconi s'è trasformato in un Marchionne di complemento prendendosi lui l'incarico di indicare con precisione i veri sabotatori dei progetti della Fiat: il sindacato conservatore, settori ideologizzati della magistratura, ambienti delle borghesie bancarie. Guarda caso, gli stessi nemici contro cui punta il dito ogni giorno Silvio Berlusconi.

Ma l'elenco dei cavalier serventi ha trovato adepti entusiasti anche fra le cosiddette parti sociali. Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha fatto finta di criticare Marchionne ma solo per poter gonfiare il petto orgoglioso rammentando di essere stato lui per primo a spalancare le porte della massima flessibilità dei lavoratori addirittura precedendo i desiderata della Fiat. Mentre, sul fronte confindustriale, niente meno che il vice-presidente, Alberto Bombassei, s'è precipitato a parare il colpo di una possibile uscita della Fiat dall'organizzazione (con conseguente perdita dei robusti contributi associativi della medesima) assicurando a Marchionne che la Confindustria sarà ben lieta di rinunciare al suo stesso ruolo pur di lasciarlo libero di sottoscrivere qualunque contratto collettivo gli aggradi di più.

Nemmeno ai tempi del miglior Gianni Agnelli è capitato di assistere a un così devoto rosario di genuflessioni. A non voler pensar male, tali comportamenti si possono attribuire alla potente attrazione della maggiore promessa fatta da Marchionne: portare la produzione di vetture Fiat in Italia dalle attuali 650 mila a un milione e mezzo entro il 2014. Un balzo che avrebbe effetti indubbiamente straordinari su tutta l'economia del Paese. Peccato che proprio qui stia il punto debole dell'intera vicenda. È vero che a Torino si racconta dell'esistenza di un progetto Fabbrica Italia da 20 miliardi di investimenti con l'obiettivo che s'è detto. Ma è altrettanto vero che, a tre anni dal 2014, Marchionne tiene il più rigoroso riserbo sui suoi piani: di concreto si sa solo che a Pomigliano si faranno un po' di Panda e a Mirafiori si assembleranno dei Suv costruiti in America. Davvero poco per dare credibilità al traguardo del milione e mezzo di vetture. La fiducia al buio non appartiene al mondo degli affari: perciò non è l'Italia ma Marchionne che "deve cambiare atteggiamento".

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