"L'America non è la Grecia o il Portogallo". Detta così sembrerebbe la classica non-notizia. Chi mai può seriamente immaginare un simile accostamento fra grandezze, sia politiche sia economiche, lontane anni luce? Ma se chi sente di dover dire questa ovvietà è addirittura il presidente degli Stati Uniti, la notizia c'è e suona anche piuttosto allarmante. Perché un'affermazione del genere, fatta da Obama in un pubblico messaggio, dà la misura dello stato di difficoltà in cui versa oggi la Casa Bianca nel padroneggiare la crisi di bilancio di quella che resta pur sempre la prima potenza del pianeta.
Sono ormai parecchie settimane che il braccio di ferro tra democratici e repubblicani a Capitol Hill tiene col fiato sospeso il mondo intero per la minaccia che il prossimo 2 agosto l'amministrazione Usa sia costretta a dichiararsi in "default" con blocco dei pagamenti e conseguenze disastrose sugli equilibri finanziari internazionali. Un evento che lo stesso Obama ha drammatizzato al massimo evocando con il termine "Armageddon" uno scenario da fine del mondo.
A prima vista tutto ruota attorno al nodo del debito federale. In crescita rapida a seguito della crisi 2008-2010, l'indebitamento degli Usa è prossimo alla parità con il Prodotto interno lordo del paese e, in ogni caso, sta superando la soglia di autorizzazione allo sbilancio finora concessa dal Congresso. Se quest'ultimo non rivede al rialzo la cifra, il Tesoro Usa deve chiudere cassa e smettere di pagare per stipendi, sovvenzioni, investimenti, interessi sui titoli in scadenza e così via: la temuta apocalisse di Obama.
In realtà il quattordicesimo emendamento alla Costituzione conferisce al presidente poteri speciali in materia di debito che potrebbero consentire ad Obama di aggirare almeno temporaneamente l'ostacolo. Ma la Casa Bianca si mostra restia agli espedienti e vorrebbe che un innalzamento del tetto al debito procedesse di pari passo con una manovra di bilancio mirata a ridurre il deficit di almeno 4 mila miliardi di dollari in dieci anni. Ed è su questo punto specifico che è in atto il vero scontro fra presidenza e Senato democratici, da un lato, e Camera dei Rappresentanti in mano ai repubblicani, dall'altro. Questi ultimi intendono che i fatidici risparmi siano ottenuti soltanto con tagli alla spesa sociale, quella sanitaria in primo luogo.
Obama e i democratici puntano a una manovra più equa finanziata per almeno un terzo con maggiori tasse sui redditi più elevati. Un'ipotesi contro cui i repubblicani, eredi degli sgravi fiscali elargiti dalla presidenza Bush ai grandi ricchi, fanno muro anche se al Senato una bipartisan "Gang of six" lancia segnali di compromesso.
Sotto questo aspetto sì, in effetti, la situazione americana rivela similitudini con quella dei piccoli paesi in difficoltà di bilancio, come Grecia, Portogallo e perfino Italia. Perché negli Usa come altrove lo scontro interno è concentrato sulla ripartizione sociale dei costi dell'aggiustamento con i gruppi più influenti e affluenti determinati a difendere i propri privilegi e a scaricare gli oneri maggiori sulle spalle delle parti più deboli della comunità. Sui mercati, nel frattempo, la domanda di titoli del Tesoro Usa continua a essere sostenuta. Segno che in pochi credono all'arrivo dell'Armageddon o forse anche che chi maneggia denaro è convinto in cuor suo che ancora una volta i ricchi metteranno in riga i poveri.