Quanto sia arduo risalire la china di un ventennio dominato dalla "politica come demagogia", è quotidiana esperienza di questo governo (politico quant'altri mai, essendo sostanziale espressione della massima carica dello Stato). Quando per un'intera generazione le promesse si sostituiscono ai programmi, la prassi politica si commisura ai tempi delle scadenze elettorali e l'analisi sociale si riduce alla lettura dei sondaggi, ciò non è segno soltanto della "miseria" di idee e di uomini: è il nostro stesso linguaggio che minaccia di "catastrofizzare" in un magma di quasi-parole, di esclamazioni, di moti del sentimento oppure, peggio, di aggrapparsi a poche convinzioni, altrettanto semplici che vuote, refrattarie al confronto, esclusive, fermissime nella certezza di rappresentare la vox populi o il mitico "bene comune".
Una politica demagogica non sarebbe neppure concepibile in un "contesto comunicativo" diverso. C'è una profonda "complicità" tra il demagogo e la tendenza in noi forse innata di rifuggire dalla fatica di conoscere, di comprendere, di esprimere motivatamente e responsabilmente idee e intenzioni.
Il demagogo non è colui che seduce e guida: è essenzialmente chi segue e "serve" le peggiori inclinazioni del suo popolo, chi a priori ne asseconda e giustifica i desiderata. Così questi vent'anni, alla faccia di tutte le radicali "inimicizie" che hanno messo in scena e delle reciproche "demonizzazioni", sono stati l'incarnazione della pigrizia: nulla vi è stato fatto, nulla risolto, nulla progettato seriamente, nulla tenacemente perseguito se non, appunto, la demolizione delle capacità denotative del linguaggio politico, lo svuotamento di tutti i suoi termini-chiave.
La demagogia vive in un contesto di "irresponsabilità". E cioè in un contesto sociale in cui nessun interesse specifico "risponde" a interessi diversi, in cui ciascuno ritiene fermamente di far mondo a sé. Anche l'interesse più legittimo si rappresenta come esclusivo, esattamente come il privilegio più iniquo. E ciò disfa il tessuto sociale.
La società che si esprime in questi giorni nei confronti delle misure governativo-europee (a prescindere dal loro valore e dalla loro efficacia) non è una società ma una somma di diversi, disparati e incomunicabili interessi. Viene meno l'idea di reciprocità e relazione, anni luce prima di quella, ben più impegnativa, di solidarietà. La vita si rinserra all'interno di lobby e corporazioni, la cui azione è rivolta alla propria tutela o a pressanti richieste di interventi a spese del prossimo.
Una società non è riducibile alla competizione tra burocrazie politiche e sindacali, tra i diversi organismi cui danno vita le sue potenze economiche, tecniche, scientifiche. Una società può reggersi soltanto se i cittadini avvertono tra loro una relazione che in qualche modo precede e condiziona ogni loro scelta individuale. O altrimenti "società" diviene una vuota astrazione, un puro artificio.
I regimi demagogici, proprio anche attraverso la retorica, che è sempre, per sua natura, irresponsabile, su Valori, Tradizioni, Identità tendono sempre a condurre a un tale esito. E una volta qui sprofondati è difficile far ritorno alla luce. Ma è necessario, ancor più per quei milioni di giovani che aspettavano l'Europa della conoscenza e della innovazione, e che stanno vivendo quella della disoccupazione di massa, del precariato e della crisi del Welfare.
Se essi finiranno col disperare che esistano rapporti di reciprocità e colloquio nel nostro Paese, potremo allora concludere: "Il gioco è fatto". E noi lo abbiamo voluto.
Opinioni
2 febbraio, 2012Se per vent'anni le promesse si sostituiscono ai programmi il paese va verso la decadenza. Vincono lobby e interessi particolari. Una società si regge solo se tra i cittadini esistono dialogo e solidarietà
L'eredità pesante della demagogia
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