Il Ttip, trattato tra Europa e Usa sul commercio internazionale, va avanti tra le obiezioni più curiose. Eppure i suoi vantaggi sono indiscutibili

Sin da quando nel 1817 uno dei padri dell’economia politica, David Ricardo, espose con l’esempio delle stoffe inglesi e del vino portoghese la teoria del vantaggio comparato, gli effetti benefici della libertà di commercio internazionale non sono stati più seriamente contestati. Ogni paese o area geografica si specializza a produrre quello che sa far meglio e compra il resto altrove a prezzi o qualità migliori, allocando al meglio le risorse. Semplice.

Eppure, nell’attuale clima politico, ove un misto di populismo e complottismo è teso a preservare privilegi e piccole patrie, anche un trattato che favorisce il libero scambio trova molti nemici. È il destino del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), in corso di negoziazione tra Usa e Unione Europea.

Ormai le trattative vanno avanti da un po’ e riguardano l’abbattimento delle tariffe doganali tra le due sponde dell’Oceano, basse ma non irrilevanti, e soprattutto l’eliminazione delle altre barriere. Gli ostacoli al commercio possono essere di varia natura: dai requisiti sanitari, a quote massime di importazione ed esportazione, dalle specifiche tecniche al riconoscimento dei titoli di studio. Se voglio evitare che architetti, medici o ingegneri europei lavorino negli Usa è sufficiente non riconoscere la loro abilitazione professionale. Per impedire alle aziende americane di concorrere ad un appalto pubblico francese, basta riservare la gara ad imprese con proprietà e sede legale europee.

Perché la firma e l’attuazione del Ttip sono molto importanti? Innanzi tutto per ragioni economiche. È vero che fare stime su un’economia così complessa come quella euro-americana è difficile, ma gli studi più completi finora effettuati parlano di effetti positivi a pieno regime di circa lo 0,5% del Pil e, prevedibilmente, meglio ancora per economie votate all’export come la nostra. In ogni caso l’esperienza storica mette una pietra tombale sulla discussione. Non esistono esempi di economie chiuse e protezionistiche che abbiano prosperato e, se nelle fasi iniziali dello sviluppo impetuoso di certi paesi, alcune misure di salvaguardia non hanno portato gravi danni, queste sono sempre state temporanee. D’altronde, se qualcuno pretendesse di avere mano libera nel vendere i propri prodotti serrando le porte agli altri, molto prevedibilmente provocherebbe la chiusura delle altrui frontiere.

Nella fattispecie, poi, dopo che gli Stati Uniti hanno un mese fa raggiunto un accordo con 11 paesi dell’area del Pacifico per la sottoscrizione di un trattato di liberalizzazione del commercio (il Tpp), un equivalente Atlantico si rende più urgente per evitare che il baricentro dell’economia americana si sposti sensibilmente verso Oriente. Non solo: in un’era in cui i negoziati globali sugli scambi internazionali faticano a raggiungere un consenso unanime, è necessario che le economie tuttora rappresentanti il 45% del Pil mondiale scrivano le regole in modo che siano informate a quei principi liberali, democratici e di rispetto dei diritti che ci sono cari.

L'opposizione al libero scambio sembra un disco rotto: da secoli si paventa la perdita di posti di lavoro, l’importazione di prodotti malsani o insicuri, il trionfo delle multinazionali e dei loro servi pluto-giudaico-massonici. Peccato che tali oppositori dicano le stesse cose sia che stiano nel Nuovo sia nel Vecchio Continente. Insomma, o il lavoro lo portiamo via noi europei o gli americani, ma non tutti e due a favore di Marte. E così, o i rischi sulle specifiche tecniche dei beni li corriamo in Europa oppure negli Usa: difficile che siamo sempre in presenza del peggiore dei mondi possibili.

Alcuni si lamentano della segretezza delle trattative. Ora, a parte il fatto che sebbene i negoziati internazionali non si conducano più come ai tempi di Metternich, Talleyrand e Lord Castlereagh, un po’ di riservatezza è necessaria proprio per avere la flessibilità di trattare reciproche concessioni su temi assai ingarbugliati, nel caso del Ttip è consigliabile esaminare le dettagliatissime raccomandazioni del Parlamento Europeo dell’8 luglio scorso per rendersi conto che c’è piena consapevolezza delle questioni in gioco, basta leggere...

Un torto del nostro governo però c’è. Se si esclude la battaglia coraggiosa del vice ministro Calenda, il resto dell’esecutivo è molto più impegnato a propagandare l’abolizione dell’Imu agricola che a spiegare bene i vantaggi epocali che porterà il Trattato. È ora di svegliarsi, invece.