La trasmissione francese “Apostrophe” è stata un modello di discussione colta e pacata lontanissima dai talk-show sguaiati. In Italia niente di simile
“Le Magazine Littéraire” ha dedicato un supplemento alla rievocazione di “Apostrophe”, la celebre trasmissione condotta da Bernard Pivot tra il 1975 e il 1990, e che ha rappresentato un fenomeno abbastanza unico nella storia di quelli che abitualmente si chiamano “talk shows”. “Apostrophe” andava in onda in prima serata e, siccome vi ho partecipato varie volte, ricordo un episodio abbastanza significativo. Una mattina dopo la trasmissione, entrato in un bar per prendere un caffè, il barista non ha voluto essere pagato. Questo significa semplicemente che un barista (non un intellettuale che vive tra i libri) si metteva in prima serata a seguire una trasmissione dedicata esclusivamente ai libri. E credo che questo fosse dovuto al fascino e alla capacità comunicativa di Pivot.
I “Talk shows” americani (da quelli indimenticabili di Johnny Carson a David Letterman), si svolgevano come dialogo tra il conduttore e un ospite singolo (un modello ripreso in Italia da Fazio) ed era ovvio che la conversazione si svolgesse in modo composto, con tratti amabilmente spiritosi. Ma Pivot metteva intorno a sé sette, otto, dieci personaggi, alcuni dei quali autori dei libri che aveva scelto, altri che avevano l’aria di averne letti almeno alcuni, e li faceva parlare. Sono andato a vedermi su Internet alcune registrazioni di quelle serate e sempre si rimane stupiti dalla civiltà di quelle conversazioni. Nessuno interrompeva chi stava parlando e ricordo che Pivot con un leggero movimento del mignolo faceva segno che era il momento di cedere la parola a qualcun altro.
Un rapporto educato tra molti aveva tentato di instaurare da noi Costanzo, ma a diverso livello intellettuale, mettendo insieme scrittori, nani e ballerine. È rivedendo “Apostrophe” che si rabbrividisce pensando alla degenerazione dei nostri “talk shows” attuali dove la gente si parla addosso, sbraita, talora s’insulta e (cosa più terrificante) sovente il conduttore non cerca per nulla di sedare gli animi ma indirettamente alimenta la rissa.
Dunque con “Apostrophe” la gente (compreso il mio barista) godeva di un cortese scambio di idee, mentre ormai (anche in trasmissioni analoghe in altri paesi) lo spettatore vuole soltanto godersi la zuffa, il tafferuglio, la baruffa, il parapiglia, un poco come le lotte nel fango di donne muscolose che accadeva di vedere ad Amburgo nel quartiere del vizio.
È noto che i francesi sanno praticare l’arte della conversazione in modo quasi liturgico, persino in una cena tra amici. È vero che noi non ne siamo capaci? Eppure nel rinascimento Stefano Guazzo, gentile piemontese, aveva scritto un libro sulla “Civil conversazione”, di cui si contavano quarantatré edizioni italiane fino alla metà del secolo XVII, oltre a traduzioni in latino, inglese, francese, tedesco. In questo trattatello, che ha influenzato tutta la cultura europea, si proponeva la conversazione come cura per gli ammalati di malinconia.
Analizzando i vari tipi di conversazione, pubblica o privata, tra amici, tra giovani e vecchi, tra letterati e illetterati, tra nobili e plebei, e così via, Guazzo ci ricorda come nell’Italia del rinascimento si sapeva che cosa volesse dire conversare. Poi pare che la pratica della civil conversazione si sia trasferita a Parigi, nei salotti delle preziose, raggiungendo anche forme barocche ma certamente fondando il gusto francese per il colloquio colto e garbato.
Forse gli italiani, per varie ragioni, intesi a combattersi tra loro, hanno invece elaborato l’arte del conflitto, e viviamo ancora alla luce, o all’ombra, di quella eredità.
D’altra parte Pascal Ory, nel supplemento del “Magazine”, si domanda se oggigiorno, anche in Francia, sarebbe possibile tornare a quel modello. E conclude che, con la moltiplicazione delle emittenti e nell’epoca dello zapping compulsivo, non sarebbe più pensabile un disteso appuntamento a ora fissa. Però che bei tempi, che civiltà.