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Opinioni
febbraio, 2015

Elogio del silenzio

Il nuovo presidente della Repubblica è un uomo di poche parole. Virtù, ma anche vizio, dei siciliani come dei piemontesi. Comunque, caratteristica da apprezzare in un mondo sempre 
più dominato 
dal rumore

Sono personalmente molto contento di come sono andate le elezioni del presidente della Repubblica. Ma devo dire che - avendo deciso, da cittadino consapevole, di seguirne le fasi per alcune settimane, dalla stampa alla televisione e ai vari interventi in linea, sino alle maratone televisive in cui si commentavano minuto per minuto le variazioni di proposte, scelte e rifiuti - mi sono sentito sopraffatto dal rumore. Davvero, in un’epoca in cui si vorrebbe fare tutto in streaming, è indispensabile parlare sempre e ad alta voce di quello che sta succedendo in un dato istante, e che magari cambierà pochi secondi dopo?

NON CREDO DI ESSERE contrario ai principi della democrazia se ritengo che molte contrattazioni politiche, per non degenerare in fucilazioni anticipate, dovrebbero svolgersi nel riserbo, attraverso consultazioni prudenti, e l’opinione pubblica dovrebbe giudicare sui loro risultati - poiché, per tanto che si parli, non può intervenire a modificarne le fasi.

Così mi sono sentito sollevato quando il neo-presidente eletto, ricevendo il verbale d’investimento, ha pronunciato solo quattro parole in croce. E bravo il rappresentante della tradizione siciliana, che induce a parlare pochissimo. Non sono solo i siciliani a parlare poco, ci sono anche i piemontesi. Naturalmente questa propensione, che è una virtù, ha il suo opposto nel vizio dell’omertà. Non in Sicilia, ma a pochi chilometri dalla mia città natale c’è un paese, Mandrogne, di cui si diceva che gli abitanti (di origine antica e misteriosa) praticassero l’omertà a tal punto che, se il postino domandava a qualcuno dove abitasse, poniamo, tale Mario Rossi, l’interpellato rispondeva con un semplice cenno del capo per significare che non lo sapeva - e magari Mario Rossi era lui. Leggende, forse, ma che non mi dispiacciono. Il silenzio può essere reato, ma spesso è difesa della propria privatezza, il non voler mettere le cose in piazza.

Così, mentre tutti parlavano troppo, pensavo ad Arpocrate, il dio del silenzio. Arpocrate nasceva nella mitologia egizia e aveva molte caratteristiche, ma era spesso rappresentato con il dito sulla bocca. In tal senso era diventato (teste anche Plutarco) il dio del silenzio iniziatico, dell’obbligo di non rivelare i misteri sacri. Ma, nel mondo moderno, la figura di Arpocrate cominciava ad apparire negli “Emblemi” di Alciati, nelle “Imagini delli Dei de gl’antichi” di Cartari, negli “Hieroglyphica” di Pierio Valeriano, e nel Seicento l’invito al silenzio si spogliava delle sue connotazioni misteriche e si riferiva alla riservatezza politica, ai segreti di stato, all’esigenza di praticare la simulazione o almeno la dissimulazione persino delle proprie virtù.

Alciati aveva descritto il Silentium con l’immagine di un maturo studioso che, levando il capo dai suoi libri, si volge verso l’osservatore portando il dito sulle labbra. E ricordava che, proprio attraverso il silenzio, il sapiente si distingueva dallo stolto. Che era poi una eco delle regole monastiche medievali, così severe da escludere persino le parole giocose.

MENTRE MI ASSORDAVO con le parole delle Quirinarie, ricevevo il bel libro di Bice Mortara Garavelli, “Silenzi d’autore” (Laterza, € 18) dove si allineano infiniti elogi del silenzio, dai tragici greci agli autori contemporanei, ma toccando anche i silenzi dei mistici, e l’impossibilità di parlare di ciò che è accaduto da parte dei testimoni dell’Olocausto (ma anche il silenzio colpevole di chi non ne aveva parlato a tempo debito). Ci sono i silenzi eloquenti del linguaggio amoroso, i sovrumani silenzi leopardiani, i silenzi che dicono molto, e vorrei estendermi anche al silenzio cosmico che ha preceduto il Big Bang, e al silenzio celebrato indirettamente da Valery quando diceva che forse l’universo non è che un difetto nella purezza del non-essere.

Rubo a Bice Mortara Garavelli due belle citazioni. Una è di Leopardi: «Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci), dell’ira, della maraviglia, del timore». L’altra è da Montale: «La più vera ragione è di chi tace».

E adesso taccio anch’io perché la Bustina, per fortuna, non ha più spazio.

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