La maledizione della palude. Proprio a metà del guado della legislatura. Dopo un anno e mezzo di governo, tra riforme varate e quelle annunciate. Uno strepitoso e abbagliante 40,8 per cento (vero) a maggio 2014; un oscillante e meno gratificante 33/35 per cento (virtuale) nei sondaggi attuali. Il momento è tosto. Il peggiore per Matteo Renzi e il suo governo.
L’opposizione interna lo vuole buttare giù. O per lo meno azzoppare. Il pretesto è lo scontro sul Senato, con l’abolizione del bicameralismo paritario. Il dibattito pubblico sulla riforma - delicatissima per il futuro assetto istituzionale - arriva ai cittadini attraverso lo specchio deformato della prova di forza degli uni contro gli altri. E viceversa. Un brutto derby sul campo di Palazzo Madama. Manca, tra i legislatori, la forza delle idee. Prevale un’idea per forza.
In queste condizioni il Paese non capirebbe una crisi di governo al buio; men che meno elezioni anticipate. E la minaccia del voto diventa l’arma finale del premier-segretario per portare a casa il risultato. Quale che sia il renzismo si manifesta così: un pragmatismo spregiudicato, all’insegna del fare. Non conta tanto che cosa, ma come. In velocità, innanzitutto. La legge elettorale prima, la riforma costituzionale ora sono piene di buchi e di incongruenze. Tuttavia a Renzi interessa l’approvazione comunque, per poter dire: io l’ho fatto, ci sono riuscito a differenza di tutti coloro che mi hanno preceduto. L’Italicum, per esempio, con la soglia di sbarramento per il premio di maggioranza al partito - e non alla coalizione - fissata al 40 per cento, è figlio di un’altra stagione, quando il partito di Renzi puntava a bissare il risultato delle europee. Oggi, secondo quanto rileva “Atlante politico” di Ilvo Diamanti per “Repubblica”, in caso di elezioni si delineerebbe un ballottaggio tra Pd e 5 Stelle. Un brivido. Eppure Renzi può ascrivere a suo merito l’abolizione dell’odiato Porcellum, il padre di tutti i nominati. Averlo fatto, in un’Italia immobile, è di per se stesso un merito agli occhi di molti.
Intanto il rottamatore piè veloce si trasforma sempre più nel tessitore di una potente rete di posti-chiave in economia, nella cultura, nell’informazione. “Renzomandati” è il neologismo creato per la copertina di questo numero. Il servizio di Emiliano Fittipaldi, con l’analisi di Massimo Cacciari, racconta come, tra le nomine di questi ultimi mesi, il criterio di selezione della nuova classe dirigente risponda più alla logica dell’amicizia e dell’appartenenza, che al merito e alla competenza. C’è in questo modo di operare un’idea antica: il partito-governo deve occupare tutti i gangli degli apparati statali, così resi dipendenti dalla volontà politica di Palazzo Chigi. È una visione neo-centralista, con i suoi riferimenti storico-culturali agli anni 50/60, quelli del boom economico e del miracolo italiano. Non a caso Renzi decanta ogni giorno le italiche virtù fonte di un Pil in lenta ma sensibile crescita: un nuovo rilancio economico è insomma possibile, a dispetto dei professoroni rosiconi. Supremazia della regia politica sopra ogni scelta.
Persino uno straordinario evento sportivo viene speso in questa direzione. La finale di tennis tutta tricolore di New York tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci è qualcosa di irripetibile, va riconosciuto. E Renzi non si è lasciata sfuggire l’occasione di rinsaldare l’orgoglio nazionale, con lo sport che si fa politica e la politica scivola a livello di bar sport. Lunedì 14 settembre, dopo il vittorioso weekend americano, il premier è stato ospite anche di “Tiki Taka”, programma sportivo di Italia1: un Paese, ha detto, non sta insieme solo in base a conti, statistiche, Pil; sono le emozioni a tenerlo unito e lo sport è l’emozione per eccellenza. D’accordo, non è solo questione di numeri, ma di valori. Quel giorno il premier aveva un impegno istituzionale a Bari; aveva preannunciato un masterplan per il Sud, un piano di lavoro per rilanciare l’economia di quelle regioni. Il Mezzogiorno può attendere. Meglio la rappresentazione di un successo immediato rispetto all’analisi di un insuccesso storico. Lo storytelling continua. E per ora appare vincente.
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