L’economia cresce, ma vanno forte i candidati radicali. Perché la disuguaglianza aumenta.  E favorisce una reazione contro l’establishment

In America le primarie presidenziali rappresentano il meccanismo tramite cui le nuove idee si affermano, indipendentemente dalla vittoria finale dei candidati che sono portatori di queste idee. La fine della guerra in Vietnam fu decretata in New Hampshire, quando nel 1968 il presidente in carica Lyndon Johnson vinse di misura le primarie e si ritirò dalla corsa. E la rivoluzione reaganiana cominciò nel 1976, quando il futuro presidente perse contro Ford, ma affermò le sue idee.

Sulla carta quest’anno le primarie apparivano scontate. La situazione economica - 7 anni di continua crescita e una disoccupazione al 5% - non sembrava tale da ispirare rivoluzioni. E la presenza di due candidati dal cognome famoso, con dietro le spalle delle incredibili organizzazioni di raccolta fondi, lasciava prevedere una facile vittoria di Jeb Bush e Hillary Clinton.

Invece le primarie repubblicane sono state travolte dal ciclone Trump, tanto che Jeb Bush si è già ritirato dalla corsa. Paradossalmente il fenomeno è più facile da capire per noi italiani che per gli stessi americani: basta pensare a Berlusconi. Sia Trump che Berlusconi sono businessmen di successo, con un ego smodato, una straordinaria capacità di interpretare i sentimenti dell’elettore medio e nessun rispetto per le convenzioni sociali. Proprio per questo entrambi si sono presentati come degli outsider, nonostante, come businessmen, abbiano sempre vissuto a stretto contatto con la politica, traendone grossi vantaggi economici.

Trump non ha un vero programma economico, cavalca solo la rabbia dell’americano medio. Ma se l’economia va bene, da dove viene questa rabbia? Nonostante le rosee statistiche, la maggioranza dei ragazzi americani che entra oggi nella forza lavoro guadagna meno, in termini reali, dei padri alla stessa età: gran parte della crescita degli ultimi vent’anni è andata a beneficiare solo l’1% più ricco della popolazione. Per questo, molti elettori hanno la sensazione che il sistema economico sia truccato a vantaggio di pochi. E non hanno tutti i torti. Per decenni l’establishment repubblicano ha sfruttato i voti della destra religiosa e dei sostenitori del libero mercato per difendere gli interessi di pochi miliardari. Da un lato è ironico che sia proprio uno di questi miliardari a capeggiare la rivolta di popolo contro quest’establishment. Dall’altro, ne è la conseguenza inevitabile. Solo un uomo ricco e famoso può attaccare certi tabù, senza il rischio di perdere tutti i finanziamenti.

A meno che quest'uomo non si chiami Bernie Sanders, il senatore del Vermont, che sta facendo passare notti insonni ad Hillary Clinton. Mentre tutti gli altri candidati (con l’eccezione di Trump che si autofinanzia) raccolgono decine di milioni di dollari dalle varie lobby, Sanders non accetta donazioni superiori a 5.000 dollari. Ciononostante ha raccolto tanti soldi quanto Hillary Clinton. Questo nuovo modello di finanziamento elettorale gli permette un’indipendenza che affascina soprattutto i giovani. Ogni volta che la Clinton apre bocca - ha dichiarato una giovane sostenitrice di Sanders - non si sa chi l’ha pagata. Sanders, invece, appare autentico, perché è da una vita che va dicendo le stesse cose. Solo ora gli elettori democratici lo ascoltano. Il suo programma economico è stato dichiarato non sostenibile dagli economisti dell’establishment democratico, ansiosi di minarne la credibilità. Effettivamente è un programma che mira a trasformare gli Stati Uniti in una specie di Danimarca, con un’elevata imposizione fiscale e molti più servizi pubblici. Ma proprio per questo è interessante che raccolga così ampi consensi. Fino a qualche anno fa sarebbe stato inconcepibile.

Alla fine, se non ci saranno sorprese di forti candidati indipendenti, probabilmente vinceranno Clinton e Marco Rubio, il candidato di origine cubana che offre un volto nuovo al partito repubblicano. Ma le tensioni emerse in queste primarie non spariranno. Una riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali sarà al centro dell’agenda politica, chiunque sia il vincitore. Lo stesso vale per il problema dell’eccessiva influenza della Confindustria locale sulla politica economica. Insomma queste primarie ci dicono che gli Stati Uniti assomigliano sempre di più all’Italia. La differenza è che lì c’è desiderio di cambiare.