Il partito di Grillo ha campato sulla protesta. Non basta più. Per darsi un futuro dovrà dire da che parte sta. E diventare finalmente trasparente
Un paese che non riparte, con diseguaglianze sempre più vistose e infestato da corruzione e criminalità organizzata, non si accontenta delle continue, stucchevoli dichiarazioni ottimistiche di Matteo Renzi. Anzi, più il premier insiste su questo tono, più lascia dietro di sé una scia di irritazione. Irritazione che deborda in frustrazione e rabbia. È su questi due sentimenti che il Movimento 5 Stelle tuttora prospera.
Ma il successo del partito di Beppe Grillo si scontra con alcuni limiti, oggettivi, che potranno far invertire la curva ascendente dei suoi consensi. In sostanza, stanno venendo al pettine due nodi che il M5S non ha ancora affrontato: la collocazione ideologica e la definizione delle gerarchie interne.
Usando la classica formula di tutti i nuovi partiti anti-establishment, il M5S sì è considerato al di là della sinistra e della destra. Ha adottato le solite formule per catturare consensi trasversali: noi siamo qui per risolvere i problemi, per dare voce ai cittadini, per far vincere le buone cause e gli onesti, e non abbiamo né interessi né ideologie da difendere.
Questi artifici retorici per un po’ funzionano, e attraggono consensi sia da destra che da sinistra. Infatti, il profilo del M5S è “piatto”, nel senso che i suoi elettori si distribuiscono omogeneamente su tutto l’arco politico. Presto o tardi, però, il M5S dovrà operare delle scelte che, inevitabilmente, scontenteranno gli uni o gli altri.
L’ecumenismo ideologico è sempre di breve durata. Fin qui i grillini sono rimasti al riparo dai rischi di dover prendere delle posizioni nette proprio grazie, paradossalmente, alla loro inefficacia politica: in tre anni di vita parlamentare sono riusciti a far approvare solo una proposta di legge, mentre su tanti altri provvedimenti si sono barcamenati tra astensioni e opposizioni “politiche” oscurando in tal modo le loro preferenze sul merito. La votazione sulle unioni civili lo ha dimostrato bene: le dichiarazioni favorevoli al provvedimento sono state “cancellate” dal voto contrario finale.
Se quindi il M5S vuole avere un ruolo più incisivo nella politica nazionale, e non limitarsi alla protesta, il nodo del posizionamento ideologico dovrà essere affrontato. Con un problema aggiuntivo: che la classe dirigente del M5S, soprattutto a livello locale, viene quasi tutta da esperienze “movimentiste” ed è decisamente inclinata a sinistra. C’è quindi uno scollamento ideologico tra i rappresentanti e il variegato elettorato grillino.
Il secondo nodo che diventa ineludibile dopo la scomparsa di Gianroberto Casaleggio riguarda la definizione delle gerarchie interne. Grillo aveva imposto con un diktat il direttorio dei cinque membri – anche se è chiaro che vi sono due dioscuri (Di Maio e Di Battista) più un personaggio da seconda fila (Fico), mentre degli altri due si sono perse le tracce. Finora non sono emersi conflitti laceranti né tra i cinque, né con il resto dei parlamentari o con qualche leader locale, ignoto alle cronache nazionali ma forse molto attivo nel movimento.
Il caso Pizzarotti, pur con le sue peculiarità, anticipa quanto potrà avvenire nel futuro con la proliferazione delle liste del movimento presenti nei territori. È comunque inevitabile - è nella logica di tutte le organizzazioni complesse - che, all’interno di un partito, si scatenino dei conflitti per assumere posizioni di comando. Nel M5S le occasioni non mancano. Una su tutte: quanto a lungo resisterà incontestato il ruolo della Casaleggio associati e del misterioso staff? Grillo è (ancora) al riparo da ogni critica, ma si fa strada la domanda - e si comprende la necessità – di una strutturazione interna trasparente e rispondente.
Questi dilemmi politico-ideologici ed organizzativi del M5S prima o poi si porranno con tutta la loro forza. Dalla loro risoluzione dipende il futuro del movimento fondato da Beppe Grillo. Il surf sulle onde dell’indeterminatezza non può durare all’infinito.