L’attentato all’aeroporto è l’inizio della stagione calda della Turchia. Che paga le conseguenze ?dei troppi flirt consumati in passato col terrorismo

ESPRESSOOCCHIB-20160630091857625-jpg
Istanbul ha le stesse modalità di Bruxelles, ma non è Bruxelles. È molto peggio. Perché l’attentato di martedì 28 giugno all’aeroporto internazionale (oltre 40 morti e 239 feriti, in azione con tecniche militari pare almeno 7 terroristi di cui tre kamikaze) risponde al preciso disegno di destabilizzare un Paese cruciale, necessario per gli equilibri dell’area e sulla frontiera di tutte le pericolose convulsioni mediorientali. Il presidente Recep Tayyip Erdogan vive il momento peggiore dopo 13 anni di potere pressoché assoluto e deve constatare il fallimento totale della politica concepita col suo ex consigliere, ex ministro degli Esteri ed ex premier Ahmet Davutoglu. Quella politica aveva uno slogan: “Zero problemi coi vicini”. Si è trasformata nel suo inquietante opposto: “Zero vicini senza problemi”.

L’ex sindaco di Istanbul ed ex islamico moderato, tale è Erdogan, si era messo in testa l’idea meravigliosa che la sua metropoli dovesse tornare ad essere, grazie a un disegno egemonico neo-ottomano, Sublime Porta, faro dell’intera regione, principale potenza d’area. E si era impegnato in timide aperture con gli armeni dopo il genocidio (dalla Turchia mai riconosciuto) di un secolo fa, in un avvicinamento alla Siria di Bashar Assad perché terra da colonizzare economicamente. I suoi imprenditori hanno fatto affari nel Kurdistan iracheno, nel tentativo, abortito, di crearsi una sponda in quel popolo e neutralizzare le aspirazioni secessioniste dei curdi di casa propria, sino all’altroieri nemmeno riconosciuti come tali ma definiti “turchi di montagna”. Si era spinto persino a cercare un’alleanza coi campioni dell’universo sciita, gli ayatollah di Teheran, quando si era offerto come arbitro delle loro buone intenzioni circa il progetto di sviluppo del nucleare a scopi pacifici.

Nessuna di queste iniziative è andata a buon fine. La questione armena non ha soluzione ed è sfociata in una querelle persino con papa Francesco sul termine da usare per lo sterminio. Dopo anni in sonno le frazioni più estremiste curde hanno ripreso la strada degli attentati e della contrapposizione violenta quando hanno visto fallire ogni tentativo di essere considerati, al minimo, una minoranza con pari diritti della maggioranza. Il negoziato con l’Iran ha seguito altri percorsi trovandosi un garante di maggior prestigio come Barack Obama. E Bashar Assad, da potenziale partner commerciale in condizioni di inferiorità, è diventato il peggior nemico dopo che, con una capriola spericolata, Erdogan si è trasformato, se non nel padrino, almeno nel silente fiancheggiatore dei gruppi fondamentalisti, primo fra tutti il sedicente Stato islamico, che lo vogliono abbattere. Come? Permettendo i traffici illegali di petrolio necessari per la sopravvivenza dell’autoproclamato califfato (documentati da giornalisti coraggiosi per questo spediti in galera) e chiudendo gli occhi sul passaggio dal suo poroso confine dei foreign fighter andati a ingrossare le file dell’esercito jihadista.

Non bastava. In un soprassalto di litigiosità planetaria, ha rotto sei anni fa i rapporti con Israele per la vicenda della “Mavi Marmara” (la nave che cercava di rompere il blocco di Gaza, fermata dalle truppe d’élite dello Stato ebraico con spargimento di sangue) e, da Sultano, si è scontrato ferocemente con lo Zar Vladimir Putin a causa del jet russo abbattuto da Ankara a novembre mentre andava in missione in Siria, per il quale ha chiesto scusa nei giorni scorsi. La ricucitura col Cremlino, parallela a quella con Bibi Netanyahu (che ha riconosciuto 20 milioni di dollari ai familiari delle vittime) è il tentativo disperato di rientrare nel consesso internazionale, assieme finalmente a un deciso impegno contro lo Stato islamico cui è stato costretto dalle pressioni americane. Né sono estranei a questa resipiscenza gli otto attentati sul territorio turco compiuti prima dell’attacco all’aeroporto di Istanbul nei soli primi sei mesi del 2016.

Voltafaccia che non sono piaciuti al califfo Abu Bakr al-Baghdadi già in difficoltà a tenere il territorio conquistato, causa l’offensiva della coalizione anti-Is. Erdogan paga il prezzo delle scelte sciagurate passate quando ha scherzato col terrorismo che gli si è rivoltato contro. La posizione geografica del Paese non lo aiuta, così prossimo all’epicentro dell’incendio e snodo del tragitto dei profughi. E la scelta temporale delle bombe allo scalo internazionale dimostra la volontà di colpire il turismo. La stagione calda della Turchia è solo all’inizio.

L'edicola

Ipnocrazia - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 4 aprile, è disponibile in edicola e in app