Dagli scandali vaticani al caso Ilaria Capua, "l'Espresso" cerca ogni settimana pezzi di verità. Possiamo sbagliare. Ma non smettere di cercare
Il giornalismo non sta tanto bene in salute. Come tanti ingranaggi della complessa macchina di una società post-industriale, in bilico tra rivoluzione digitale e involuzione post-democratica. Sull’onda lunga del declino delle élite - fenomeno che noi de “l’Espresso” per primi abbiamo focalizzato - la crisi di credibilità colpisce chiunque sia titolare di un potere pubblico, dai professori ai magistrati, dai giornalisti agli scienziati (
qui Michele Ainis). Tutti livellati verso il basso. Sempre meno legittimati a svolgere il proprio ruolo sociale.
Un derivato del cattivo umore intorno al giornalismo si avverte in casa nostra, qui a “l’Espresso”. Sempre più frequentemente veniamo indicati come cattivi maestri dai paraguru del conformismo più anticonformista. Sempre più spesso veniamo bacchettati perché ci ostiniamo, in compagnia di pochi, a praticare quel giornalismo privo di servo encomio e di codardo oltraggio. Ci tocca, ne siamo consapevoli, non giochiamo a far le vittime. E quando sbagliamo - perché a tutti capita di sbagliare, no? - abbiamo la consapevolezza di essere caduti in errore alla ricerca di brandelli di verità. Mentre stavamo cercando con fatica di mettere insieme pezzi di realtà difficile da decifrare. Come in un gioco di specchi deformanti, nulla è come appare. È il fascino e l’insidia del giornalismo d’inchiesta: ricostruire tassello dopo tassello.
il numero di questa settimana, dunque.
La copertina nasce dal lavoro svolto da Emiliano Fittipaldi sugli “arcana imperii” della corte vaticana. Fittipaldi è stato appena prosciolto, il 7 luglio, insieme al giornalista di Mediaset Gianluigi Nuzzi, nel processo intentato dallo Stato della Città del Vaticano per aver pubblicato un libro, “Avarizia”, del quale non si contestava la falsità delle informazioni riportate. Si è contestato addirittura il diritto di scrivere quel testo, perché basato su documenti veri ma riservati. È rimasto sulla graticola per sette mesi. Processato non per un falso ma per una verità scomoda che mai avrebbe dovuto svelare. Il tribunale del Papa, alla fine, ha fatto prevalere il buon senso e invocando il “diritto divino” alla libertà di stampa ha fatto cadere la temeraria accusa. La “santa anarchia”, auspicata da Francesco, resta tuttavia una formula di governo del potere vaticano da scoprire, capire, disvelare. Con fatica. Sapere invece che sopire. “L’Espresso” continuerà a raccontare.
Voltiamo pagina. Altra storia, altro contesto:
il proscioglimento di Ilaria Capua, la scienziata incappata in un’inchiesta giudiziaria durata scandalosamente 11 anni. È una buona notizia. Come è sempre una buona notizia ogni qual volta un cittadino risulta candido davanti alla legge. Purtroppo la Capua, con il suo bagaglio di intelligenza, ha nel frattempo lasciato l’Italia come pure il seggio in Parlamento ottenuto con la lista dell’ex premier Mario Monti. Ritornerà mai sui suoi passi la scienziata? Ritornerà in patria? Auguriamocelo.
Noi de “l’Espresso” lo pensiamo sinceramente. In qualche modo veniamo indicati come i colpevoli di questo corto circuito tra il mondo della magistratura e quello della scienza. Il giornale infatti, più di due anni fa,
dedicò una copertina al caso, portando alla luce le carte giudiziarie con le accuse alla Capua. I servizi erano firmati da Lirio Abbate, un giornalista cui non si perdona di avere buone fonti e di raccontare prima di altri ciò che sta per accadere. Come nel caso di Mafia Capitale. Una scienziata famosa, influente, per di più eletta deputata: cosa avrebbe dovuto fare il giornalista? Tenersi le informazioni nel cassetto per chi sa quale scopo? O provare a mettere insieme i pezzi di una storia?
Nell’italia del doppiopesismo e dell’obiettività faziosa c’è chi prova a impartire lezioni di buone maniere. Si distinguono coloro i quali mai hanno provato la fatica di scavare notizie scomode. È il giornalismo da salotto. Abbondante. A ciascuno il suo.