Il premier si è reso conto che i consensi perduti nelle comunali non si recuperano con ?il referendum. E nel partito è sempre più debole
il sogno del Pd sta trasformandosi in incubo. Finora il Pd si era cullato nel sogno di essere passato, nell’arco di un anno, da partito in crisi (25% alle politiche, dimissioni del segretario, umiliante grande coalizione con il Pdl) ad attore dominante del sistema con il 41% dei voti e un governo praticamente monocolore diretto dal suo giovane e pimpante leader.
Il passo di carica con cui Matteo Renzi inanellava riforme su riforme convinceva anche i più riottosi che il Pd era destinato a un radioso futuro. Anche il 37% dei votanti in Emilia Romagna, la sconfitta a Venezia e Perugia, e la vittoria di misura in Umbria, erano derubricati a insignificanti rallentamenti della marcia trionfale. Nemmeno la lenta ma costante erosione del consenso al premier e al suo governo turbava più di tanto la leadership. Del resto le cosiddette Direzioni del partito - sostanzialmente degli “one-man-show” dove il dibattito era limitato a pochi minuti prima della replica-fiume del lider maximo - non facevano emergere alternative politiche di rilievo.
Ma alla fine il sogno è svanito. Il governo è in balia del soccorso verdiniano, Renzi è superato da Luigi Di Maio (!?!) quanto a fiducia, e infine è arrivata la scoppola di Roma e Torino. In estrema sintesi, il primato del Pd è diventato contendibile, né più né meno come tre anni fa. La leadership si era illusa che bastasse una occupazione abile quanto pervasiva dei media per mantenere il consenso. Ma questo poteva andare bene per chi un partito non l’aveva, o lo gestiva come una sua dépendance privata: leggi Berlusconi.
Il Pd esiste, invece. Non ha ancora trovato una sua storia - una sua narrazione - per via della famosa fusione a freddo, ma dispone di strutture, quadri dirigenti, militanti e iscritti. Non vive solo sugli elettori. E gli elettori non si catturano nei talk show, che Renzi ora demonizza dopo esserne stato ospite fisso e coccolato quando criticava il proprio partito, bensì facendo girare la macchina organizzativa. Se questa si inceppa, poi se ne pagano le conseguenze. Prendiamo il caso del Pd nella rossa Bologna: il sindaco uscente ha dovuto faticare contro un’avversaria inconsistente, più ancora che sconosciuta, in una città dove cinque anni prima era passato al primo turno. Cattiva amministrazione? No, come di certo non la si può imputare a Piero Fassino, tutt’altro.
Semplicemente il partito si era “disperso”, lì come altrove. Non sapeva più cosa era e cosa fare. Era ancora il partito che rappresentava i lavoratori e ne difendeva gli interessi quando invece il proprio leader non pensava che a irridere i sindacati mentre frequentava tutto contento industriali di successo? In quali fabbriche disastrate o periferie scalcinate Renzi e i vari dirigenti locali si sono mai presentati? Da questa distrazione nasce la crisi del Pd. Del resto, tutto ruotava - ora le cose stanno cambiando - attorno al referendum sulla riforma costituzionale. Una ossessione, come se da questo dipendesse il futuro dell’Italia.
Ma anche una opportunità per il segretario: disinteressato e persino infastidito dal “partito” era chiaro l’intento di sostituirlo con i comitati del Sì. Dopo Roma e Torino il leader dei democratici si è accorto che il recupero del consenso non passa per il referendum, anzi le nubi si addensano sull’esito della consultazione. Ancora peggiore il clima all’interno del partito dove il sostegno non sembra più così roccioso. Molti sono saliti sul carro Renzi perché aveva l’aura del vincente. Perché, dicevano, «adesso vogliamo vincere, basta con le sconfitte». E in tanti, per puro spirito di sopravvivenza, gli si sono aggrappati. Questo tipo di consenso è legato alla performance, non è fondato sulla condivisione ideale. Di conseguenza, non appena si appanna il tocco magico, svanisce la speranza di un futuro radioso. Alcuni segni dello sfarinamento del consenso interno sono evidenti, a incominciare dai ripensamenti sulla narrazione del referendum come l’Armageddon della politica italiana e sull’intangibilità assoluta del sistema elettorale.
Il Pd è entrato in una nuova fase. È diventato contendibile all’esterno come all’interno. I competitori sono ancora opachi, devono definire meglio il loro profilo, renderlo plausibile ed affidabile. Ma l’
imperium renziano sembra avviato al tramonto.