Dalla lunga recessione siamo magari usciti e però la crescita stenta, è fragile, esposta anche al più piccolo contraccolpo di una congiuntura internazionale tutt’altro che trainante. Lo si è appena visto con i dati sul secondo trimestre dell’anno: si è tornati al tasso zero dopo che il Pil del primo aveva avuto un segno positivo. È in buona salita l’agricoltura (più mezzo punto fra aprile e giugno), si difende il settore dei servizi (più 0,2), mentre è venuto a mancare il piatto forte dell’industria (meno 0,6). Un dato sul quale è il caso di riflettere seriamente perché indica la causa principale delle nostre difficoltà: la latitanza degli investimenti e soprattutto - con buona pace del mondo confindustriale in tutte le sue sfaccettature - di quelli privati.
In proposito siamo ancora su livelli inferiori di un buon 25 per cento rispetto a quelli degli inizi della grande crisi. Nessuno può essere così immaginifico da illudersi che un tale ritardo possa essere colmato in tempi brevi e col semplice ricorso a quelle misure di alleggerimento fiscale che la Confindustria sollecita e che il governo ha in parte già concesso e ora dice di voler incrementare. Che ulteriori tagli del cosiddetto cuneo fiscale possano fare solo del bene è fuori discussione, anche per i riflessi sulle assunzioni di manodopera. Ma alla radice delle nostre difficoltà c’è un nodo strutturale ineludibile che tiene bloccato il grosso del sistema produttivo: ed è appunto la scarsità degli investimenti.
Confindustria e pure Confcommercio insistono da tempo sul tasto del rilancio dei consumi come passaggio indispensabile per spingere le imprese a maggiori impieghi di capitale. Discorso sensato in astratto, molto meno nel concreto dell’Italia presente. Se è vero che con acconci tagli alle tasse si liberano risorse nelle tasche dei cittadini, è parimenti un fatto che lo Stato è costretto a compensare il minor gettito delle imposte usando la forbice sulle uscite del bilancio pubblico. Del resto, proprio commentando il deludente consuntivo del secondo trimestre 2016, l’Istat ha notato che l’effetto complessivo di un lieve incremento dei consumi privati è stato annullato nel periodo da un calo sul versante della spesa pubblica.
Insomma, non ci sono alternative alla necessità di prendere di petto il nodo degli investimenti. E l’unica strada praticabile è quella di usare il denaro pubblico per promuovere iniziative che smuovano da una patologica inerzia capitali privati spesso congelati in impieghi sterilmente finanziari. L’ostacolo maggiore su questa strada è che per avere un impatto risolutore, seppure nel corso di qualche anno, occorre un volume di investimenti pubblici di parecchio superiore a quello consentito dai vincoli stringenti di una finanza pubblica gravata dal debito che si sa. La soluzione del problema, quindi, può essere una sola: ottenere che sia l’Europa a promuovere un ampio programma di investimenti comunitari che vada ben oltre quella specie di impiastro che è l’attuale piano Juncker.
Da come si sta muovendo ora sembra che il governo Renzi abbia capito la lezione: non basta strappare qualche ulteriore decimale di flessibilità, occorre rovesciare il verso stesso della politica economica dell’Unione. Cimento di lunga lena, ma che è anche l’unico che oggi abbia senso affrontare, non solo per l’Italia ma per la sopravvivenza stessa del progetto europeo. Anche perché si tratta di una battaglia da combattere su un doppio fronte. Quello esterno, degli ottusi contabili di scuola germanica e dintorni. Ma non meno quello interno delle varie opposizioni - dai Cinquestelle ai leghisti - che a un paese sempre sull’orlo dell’abisso sanno proporre soltanto di precipitarvisi definitivamente con l’abbandono dell’euro. Un’insensata fuga suicida dalla realtà che, tuttavia, offre un comodo alibi alla parte più arretrata del mondo industriale, dove la nostalgia del recupero di competitività attraverso le svalutazioni del cambio fa premio sulla voglia di rischiare i propri soldi in nuovi investimenti.