C’è stato un tempo in cui la gente comune attirava pubblico e curiosità. Poi ha iniziato lei stessa a recitare. E si è tornati ai famosi

Angelo Guglielmi, intellettuale ad ampio spettro, piemontese della classe 1929, è stato il direttore di Raitre dal 1987 al 1994. Anni di grande impegno e solide idee. A lui e alla sua squadra spetta ad esempio il merito di aver lanciato trasmissioni in bilico tra informazione, approfondimento e tv di servizio come Samarcanda, Un giorno in pretura, Telefono giallo, Mi manda Lubrano. Sempre a questo gruppo di professionisti va riconosciuta la capacità di avere pensato palinsesti in grado di dialogare con la società creando nuovi linguaggi. Ma soprattutto, ciò che resterà scolpito accanto al cavallo di viale Mazzini, sarà il merito di avere acceso i riflettori sulla gente comune, testimone diretta delle mutazioni nazionali in corso.

Allora era ancora possibile. Erano i tempi nei quali la telecamera veniva percepita come un corpo esterno alla vita ordinaria. Arrivavano giornalisti e cameramen, puntavano i loro attrezzi verso la realtà di turno da esplorare e il risultato odorava di vero. Zero recitazione, da parte delle persone coinvolte. Anzi ciò che arrivava a casa attraverso il piccolo schermo era clamorosamente intenso. A volte in chiave drammatica, nel caso di certe cronache, e altre volte invece in chiave divertita, quando la contaminazione avveniva tra ordinary people e mondo dello spettacolo.

Impossibile non citare, dentro a questi ragionamenti, il lavoro carismatico di Michele Santoro e del primo Piero Chiambretti. Ma impossibile pure, proseguendo in questo ragionamento, non considerare il passo successivo nel rapporto tra popolo italiano e video, che per quanto mesto possa apparire fu rappresentato a inizio anni Duemila dall’avvento del Grande Fratello. Un tele-prodotto in cui un gruppo di giovani senza visibilità pregressa (e qualsivoglia meriti, è d’obbligo aggiungere) veniva sigillato dentro una casa catodica e filmato mentre colmava il nulla della propria inattività con un accrocco di chiacchiere, liti e schermaglie sessuali.

Tanto bastò per aizzare curiosità, ascolti e commenti in salsa psicologica. Il massimo, per chi di mestiere rincorreva lo share. Ma anche un minimo cerebrale che nel tempo è stato soffocato dal cinismo dei concorrenti, consapevoli sempre più del ruolo che interpretavano e quindi di fatto attori per emergere al meglio. Un guaio, in chiave assai più soft, che avrebbe in seguito coinvolto anche il pianeta dei talent (dove la spontaneità, in teoria, dovrebbe essere merce preziosa) e che oggi ha portato all’ultima frontiera letale; ossia l’utilizzo dei cosiddetti vip in video-contesti (come appunto il Grande Fratello) fin qui occupati dalla gente comune. Una prestidigitazione per mixare mediocrità e voyeurismo. La conferma della difficoltà di concepire una tv popolare che non umili chi in buona fede la consuma.