La Laver Cup creata dal tennista svizzero è un esempio di qualità. Che non riguarda solo lo sport ma anche gli altri programmi
Non lasciatevi ingannare. Quella che state per leggere non è una pagina dedicata allo sport in televisione, anche se appunto di sport si parlerà e in particolare si ragionerà di tennis, cioè di una disciplina che contrappone due esseri umani separati da una rete mentre cercano di sopraffarsi a colpi di lift and slice. Quello che succede è che dopo infiniti anni di quiete, segnati comunque dall’evoluzione dei materiali delle racchette, alcuni illustri nomi del settore si sono convinti che per rendere più seduttivi i match vadano cambiate le regole. Ecco dunque che si sperimenteranno, a brevissimo, opzioni come il riscaldamento iniziale più breve, set composti da quattro game al posto di sei, partite al meglio dei cinque set senza vantaggi sul 40 pari e libertà di movimento del pubblico sugli spalti durante le competizioni.
Dettagli astrusi, per chi ha scarsa confidenza con la materia, ma anche un segnale fin troppo chiaro per chi appartiene alla categoria degli appassionati. Lo scopo, infatti, è quello di entrare nei santuari di Wimbledon, Roland Garros o US Open e scardinare l’armonia del gioco trasformandolo in prodotto stile fast food: sia per chi siede in tribuna, sia per chi armato di telecomando fa la gioia da casa di organizzatori e sponsor.
Difficile dire se tutto ciò davvero contribuirà ad allargare il perimetro di consumo del tennis e di un’antica liturgia in cui le pause, con il loro pathos, hanno quasi la stessa importanza dei gesti. Difficile pure cogliere il senso di un’accelerazione artificiale aggiunta a scambi atomici tra atleti in overdose di potenza. Però un punto è certo: la strada maestra è quella che Roger Federer ha indicato a tutti tra il 22 e il 24 settembre organizzando a Praga una manifestazione titolata Laver Cup (in onore, va da sé, del fuoriclasse australiano oggi fulgido settantanovenne).
Uno show video-proposto in Italia da Supertennis forte di una complessità espressiva che è partita dal campo di gioco per intrecciare vari piani di lettura. Quello geografico-identitario, prima di tutto, prevedendo che il torneo opponesse due squadre di campioni in rappresentanza di Europa e Resto del Mondo. Quello storico-emotivo, affidando le fasce da capitano a Björn Borg e John McEnroe. E poi quello atletico-generazionale, convocando stelle che scendevano dai 36 anni appunto di Federer ai soli 18 del canadese Denis Shapovalov. Tutto ciò che serviva per costruire un programma di successo, dentro e fuori dai campi di tennis, accompagnato da una selezione di colori (nero il campo, rosse e blu le divise dei giocatori e le luci a tratti sparate sul pubblico) di rara efficacia. Che poi abbia vinto l’Europa, è un dettaglio. Conta la qualità mentale e strutturale del progetto, troppo spesso assente in televisione.