La foto le ritrae subito dopo la mattanza di Londonbridge, o forse mentre non lontano da lì i terroristi ancora affondano i loro coltelli nelle gole dei passanti. Le due ragazze fuggono composte, mano nella mano, magliette in ordine, capelli a posto. Negli occhi non c’è il lampo del terrore, sanno cosa devono fare, dove andare, come riprendersi la vita. Torna alla mente un’altra immagine, ritrae un gruppo di ragazzini inglesi, forse appena usciti da scuola, chissà, stretti l’uno accanto all’altro in una sorta di bunker scavato nel giardino. Non piangono, non urlano, nel loro viso non c’è un solo muscolo contratto: guardano in su, verso il cielo ?da dove gli aerei della Luftwaffe sganceranno, come quasi ?ogni giorno dell’autunno del 1940, altre tonnellate di bombe incendiarie. Aspettano che passi, apparentemente non sono sopraffatti dal panico. Apparentemente. Forse, oggi come allora, noi come loro proviamo ad abituarci alla paura quotidiana, a rassegnarci a ciò che accade intorno a noi. Ma intanto dentro ?di noi l’angoscia, lentamente, scava. Ed è questo che vogliono, prima di ogni altra cosa, gli assassini dell’Isis.
Così come è stata sottovalutata l’escalation del terrorismo ?di matrice islamica, allo stesso modo non si è forse riflettuto abbastanza sugli strumenti di coercizione che ogni guerra porta con sé, soprattutto questa, per fiaccare, paralizzare, ridurre all’impotenza le nostre città, l’Europa, l’Occidente. Giocando sulla paura, formidabile arma di distruzione - psicologica - di massa, ?in un crescendo che sembra non fermarsi mai. A ogni azione sui teatri bellici di Siria e Iraq, a ogni arresto risponde poco dopo un altro attentato, un altro ordigno, il gesto isolato di un fanatico: una reazione sanguinosa per convincerci che sono sempre tra noi, che vinceranno. È il sistema subdolo di oliare un meccanismo perfetto: l’attentato genera paura, la paura fa immaginare impotenza; la possibilità che l’atto si ripeta presto, e chissà dove, magari qui vicino, cambia segno a quella stessa paura, non la vincola più al singolo evento tragico e reale, ne fa condizione costante e quotidiana legata a qualcosa che ancora ?non è accaduto, ma quasi certamente accadrà.
Come conferma una tragica contabilità, la morte arriva in media ogni quindici giorni. A volte sotto forma di piano organizzato nei minimi dettagli, a volte come gesto spontaneo, occasionale, isolato. E sembra davvero rispondere a un’unica strategia: la guerra si vince imponendo la paura. Senza mettere nel conto ?i fatti più eclatanti - la strage di Charlie Hebdo; il Bataclan; l’aeroporto di Bruxelles; il mercato di Natale a Berlino; il lungomare di Nizza e, giusto un anno dopo Charlie Hebdo ?e qualche mese dopo i raid britannici in Siria, l’attacco a Westminster e Londonbridge - il registro delle azioni è sempre più fitto: il sacerdote di Rouen sgozzato in chiesa mentre dice messa; due poliziotte dilaniate a colpi d’ascia nell’aeroporto di Charleroi, Bruxelles; l’aggressione con un machete a un militare di guardia al Louvre; il ragazzo che si fa saltare in aria ad Ansbach durante un concerto; quello che a Monaco, sparando all’impazzata, uccide nove persone; il siriano che a Reutlingen ammazza una donna a colpi di accetta… E l’elenco certo non finisce qui.
Gli obiettivi sono diversi, le modalità imprevedibili, i luoghi i più disparati, ma a cadere sono i civili, non i soldati con l’elmetto. La paura diviene ansia. In uno sforzo di razionalizzazione, proviamo ?a convincerci che si tratti di casi isolati, di qualche facinoroso radicalizzato, sperando di scacciare l’incubo della guerra ?di religione e di separare un atto dall’altro. Invece, immancabilmente, l’Isis rivendica, si appropria di ogni gesto eversivo riconducendolo sotto le bandiere nere dello Stato islamico. E la nostra illusione svanisce. Allora, nella speranza ?di ritrovare un equilibrio, ci ripetiamo che si tratta pur sempre ?di episodi che non ci toccano da vicino, quasi fosse un’epidemia grave ma lontana, che a casa nostra non arriverà mai. Poi, ?in una piazza di Torino, una calda sera di giugno rischia di finire ?in tragedia, forse per una bravata o una leggerezza. Stavolta all’orrore si accompagna il sollievo: non c’entra il terrorismo. Ma la paura ha già fatto il suo lavoro. Quando è così, hanno già vinto.
Gli eventi che si susseguono sono sempre più difficili da metabolizzare. Cresce la convinzione che il terrorismo, perché tale, possa non avere mai fine; il conflitto tra Riad e Teheran, da cui sono nate tutte le destabilizzazioni dell’area, già vecchio di decenni, conosce sempre nuovi capitoli, dalla svolta di Trump al nuovo dissenso con il Qatar; ma la spaccatura religiosa e ideologica tra sciiti e sunniti che lo alimenta è addirittura vecchia di un millennio. Dello Stato islamico sappiamo più o meno tutto: dov’è, come opera, chi lo finanzia, ma ogni piano di contrasto ?si arresta dinanzi a muri dietro i quali qualcuno si muove per spingerci alla paralisi. Alla paura quotidiana - fisica, psicologica - si aggiunge quella estrema di perdere la guerra.
Sedici anni dopo le Torri gemelle, non è ancora finita. Nelle strade, negli aeroporti, nei luoghi pubblici sostano i blindati e girano i poliziotti armati: ciò che ci dovrebbe rassicurare ci ricorda invece che non viviamo in una situazione di normalità. Non sapendo chi e dove colpire, aspettiamo il prossimo attacco. Intanto bandiere nere sventolano in Siria, in Iraq, nel Maghreb, in Libia: cioè a due passi da casa nostra. Impauriti, scarichiamo le nostre ansie sui barconi che affondano nel Mediterraneo. Altra linfa per chi combatte seminando scientemente paure. Eppure la risposta non è solo ?sui campi di battaglia, è anche dentro di noi. Non smettiamo di sperare: le ragazze della foto, come altri milioni, studiano, lavorano, cantano, ballano, sono attaccate alla loro vita: per i barbari ?del terrore è questa la vera sconfitta.
Twitter @bmanfellotto