Invece di progettare palinsesti più solidi, ?si punta spesso su singoli appuntamenti ?di prestigio. Utili giusto a garantire share
Ci sarebbe, a un certo punto, da spendere qualche considerazione a freddo sui nuovi palinsesti Rai. Il condizionale è doveroso perché troppo appare lo strazio di scrivere ogni anno le stesse parole - tristi, un po’ deluse, a tratti addirittura avvilite - sulle promesse non mantenute da parte della televisione pubblica di progettare modernità e originalità. No. Non ha alcun senso ragionare, in quota Rai1, sul passaggio di Cristina Parodi dalla quotidianità de La vita in diretta alla tradizionale settimanalità di Domenica in. E c’è poco da dire, pure, sul ritorno a Rai2 del gigionissimo show di Mika o magari sullo sbarco novecentesco di Michele Santoro a Rai3.
Non che l’autunno di palazzo Orfeo sia del tutto privo di qualità, ci mancherebbe: toccherà ancora una volta al giornalismo cronistico-emozionale di Domenico Iannacone consolare chi non digerisce la presenza preistorica di Bruno Vespa, al tarocchissimo show de Il Collegio si alternerà per fortuna il fascino demenziale dell’Ispettore Coliandro, e tra i meriti di Daria Bignardi (depredata in un sol colpo delle nenie faziesche e del coefficiente identitario garantito da Gazebo) c’è quello di voler lanciare Far Web, approfondimento dal titolo evocativo sui guerrieri della Rete. Però, a fronte di queste buone notizie immerse nell’oceano della mediocrità, c’è un dettaglio degno di preoccupazione.
È la tendenza, cresciuta non soltanto in Rai, di puntare tanto e forte sui cosiddetti “eventi”. A parte il Modena Park di Vasco Rossi, dove Rai1 ha dato il peggio di sé alternando il flusso delle canzoni alla pubalgia del Bonolis-pensiero (non è certo così che si risolvono gli ostacoli dei diritti tv), la questione ha un più consistente respiro. Nel senso che l’evento, per sua stessa definizione e grazie al sostegno del marketing, agevola il successo di share e reputation per chi lo trasmette. Ma al tempo stesso, quando esaurisce il suo clamore, si rivela per quello che in effetti è: un cerotto seduttivo contro la svogliatezza o l’incapacità di costruire un’offerta solida e variegata.
Molto più facile adagiarsi sulla cultura del colpo secco, afflitta da cinismo oltre che da screziature infantili. Diverso è il discorso per le tv a pagamento o per magazzini virtuali alla Netflix, dove l’evento fa parte di una grammatica on demand. Ma qui si parla della televisione di Stato. Cioè quella struttura su cui politici, manager pubblici e intellettuali da un tanto alla dichiarazione spargono spesso inviti all’eccellenza e al rispetto del pubblico pagante. Qualcosa che necessita, per diventare realtà, di dedizione ora dopo ora, fuggendo dalla dittatura del cattivo gusto (in stile Eleonora Daniele, per intendersi, premiata per la sua trash tv con un allargamento pomeridiano), dal già previsto reading di Alessandro Baricco («No, il reading no!», è l’urlo morettianamente istintivo) o da altri “eventi” alibi che non rinforzano e mai rinforzeranno le fondamenta Rai.