La barriera di Trump, e le altre che sorgono in Europa, sono il sintomo di una regressione democratica: mettiamo frontiere per sentirci al centro del mondo
La scossa che immobilizza Trump, insolente e minaccioso presidente americano, è la metafora dei tempi. Nella società dell’istante, siamo chiamati ad esprimere, pur senza i necessari strumenti, un giudizio sul giusto esercizio dell’autorità del potere con cui qualcuno, eletto o nominato, regge uno Stato. Il giudizio popolare, o almeno di quella parte del popolo che ancora si esprime, spinge il potente “spogliato” del suo ufficio, guardato come fosse uno di noi, a ricercare nella semplificazione, nella regressione a infanzia democratica, risposte che si trovano invece nell’età adulta di una società.
Si chiama “psicopolitica”, la puerile presunzione di essere il centro del mondo perché l’ampiezza di questo mondo la decidi tu con i confini. Incurante del fuori. Il problema è che questa visione della politica non ha in sé la forza di sopravvivere ai bisogni dei cittadini ormai armati contro la rappresentanza. La colpa è di un muro. Non tanto delle reti metalliche fra Usa e Messico. La colpa è del simbolo che quel muro incarna.
[[ge:rep-locali:espresso:285288462]]Il muro è per la politica di oggi la regressione all’infanzia felice dello stato nazione. Qualcosa di molto più antico ed esaurito di quanto si pensi. Nel 1961, quando a Berlino veniva eretto il Muro che avrebbe diviso per quasi trent’anni la capitale tedesca in due, e con lei il pianeta, vera e propria fortificazione postbellica, materiale e ideale, quel piano fallimentare fu pensato dai più deboli: i comunisti della Germania dell’Est - legati al dominio sovietico - nell’illusione prima di impedire all’Occidente di entrare nel proprio sistema di pensiero, poi di nascondere il proprio fallimento. Finì come tutti sappiamo.
[[ge:rep-locali:espresso:285288585]]In questo numero dell’Espresso ci occupiamo dei nuovi muri. Lo facciamo partendo da quello di Trump, simbolo della sua vittoria contro i Clinton. Quel muro è già l’emblema del fallimento di un presidente antistorico e di un modello desueto. Eppure l’Europa lo imita. Anche qui la guerra del Mare nostrum, fatta di proclami e odio verso l’invasore, è un muro, il braccio di ferro nella balera politica di nazioni allo stremo. Senza idee e senza modelli di sviluppo. È il nostro modo truce di dirci esausti. Il nostro incanto infantile per ciò che fu. E che rivede nella nazione la culla. E pensare che, di fronte allo scenario italiano così desolante, avevamo creduto (o sperato) che almeno la Francia avesse imboccato la strada giusta. Ma non pare sia così.
Macron si accasa nella stessa baracca diroccata di un’Europa di altri tempi. E compie nei fatti ciò che a parole negava, parla di interesse di patria e di nazione armata, baluardo di una strategia muscolare che non porterà alla definizione di una “natura politica” del nuovo continente, perché fra sconosciuti e stranieri non si usa. A questo punto, perfino a Paolo Gentiloni, mite e occasionale premier di un paese in stato di commissariamento democratico, è toccato ergere un muro. E inventarsi una guerra. Una guerra al nostro futuro, il Nord Africa. Una guerra dove un paese in fasce come è tornata ad essere l’Italia, attaccata all’Europa e ai suoi prestiti come un bambino al seno della madre, frigna e si dimena. Sperando che stavolta ci vada dritta. E che al tavolo dei presunti vincitori lascino un posto anche per noi. Di lato. Per presentarci al voto con il nostro muro da esibire.
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