Il 18 maggio scorso è stato il trentennale della morte di Enzo Tortora. Sono trascorsi moltissimi anni ma il “caso Tortora” resta ancora una frattura, un buco nero, una vicenda su cui ancora non si vuole raggiungere una spiegazione condivisa, soprattutto se pensiamo a quale sia il torto che Enzo Tortora ha subito e se pensiamo a chi lo ha commesso. È chiaro che Tortora è stato vittima di malagiustizia, ma è altrettanto chiaro che un caso così eclatante di malagiustizia si regge solo se può godere di un consenso pressoché unanime da parte di chi avrebbe dovuto invitare al ragionamento e non l’ha fatto, dando sfogo al peggiore di tutti i sentimenti: l’invidia. Enzo Tortora è vittima di invidia, la sua storia getta un’ombra sinistra sul nostro Paese, sulla stampa e sull’opinione pubblica che non è stata in grado di trattenere le peggiori pulsioni.
Chi è stato Enzo Tortora, che cosa ha rappresentato in vita e cosa rappresenta, la sua memoria, ora che non c’è più, forse lo sappiamo tutti. Quello che non tutti sanno è come nasce la sua assurda vicenda giudiziaria. Enzo Tortora fu arrestato il 17 giugno 1983, accusato di associazione camorristica e traffico di droga. Quando mi capita di raccontare come è nata questa accusa, chi non lo sa resta senza parole. Nasce sotto forma di livore camorristico. Giovanni Pandico, detto “Gianni il bello”, manda alla trasmissione di Tortora, Portobello, un centrino perché sia messo all’asta in trasmissione. Il manufatto viene perso e Pandico riceve del denaro come risarcimento. Ma lo smarrimento genera una rabbia infinita e Pandico inizia a parlar male di Tortora. Le calunnie finiscono col diventare virali nelle celle e il nome di Tortora inizia a circolare negli ambienti di camorra. Sembra assurdo, ma è andata proprio così. Il nome di Tortora, insozzato di balle e calunnie, arriva al magistrato e lì esplode tutto.
Sulle colpe della magistratura ci interrogheremo a vita. Oggi resta il ricordo di un uomo che ha affrontato eventi difficilissimi mostrando al Paese cosa significa avere la responsabilità di essere un simbolo: prima dell’Italia che ce la fa e poi dell’Italia che si oppone al giustizialismo. La militanza nel Partito Radicale diede ancora più spessore a questa carica simbolica già fortissima. Bisogna ammettere - e provarne vergogna è già un primo passo verso la guarigione - che su Tortora a un certo punto si riversò l’odio congiunto di moltissime categorie di persone; un’invidia che fu letale: non posso essere come Tortora, quindi lo voglio morto.
Sullo sfondo, un’Italia sempre uguale a se stessa, un’Italia che si sente costantemente tradita dalle istituzioni, un Paese incline a parlare di poteri forti da abbattere, salvo poi prendere sempre di mira le persone sbagliate perché quando a dettare la linea sono invidia e odio raramente si ha la lucidità di capire cosa si sta facendo, a quali istinti si sta dando voce. Polibio parlava di oclocrazia, letteralmente “uno stadio di governo deteriore nel quale la guida della p?lis è alla mercé delle masse”. E l’oclocrazia non ha nulla a che vedere con il diritto a essere rappresentati. Si parla di oclocrazia quando le parti politiche smettono di fare il loro lavoro e chiedono alle persone comuni cosa vorrebbero fosse fatto. Questo accade quando si perde la volontà e la speranza di trasformare le cose; quando non si crede più in una democrazia che vada verso la giustizia. Quando la sola cosa che interessa è ottenere vendetta e distruzione.
La storia di Enzo Tortora è la storia di questa distruzione e di questa perdita di speranza. È la storia di un talento distrutto dall’invidia. Criminalità organizzata, magistratura, informazione e società civile, tutti hanno avuto un ruolo in questa storia. Una storia che dobbiamo raccontare e ascoltare perché ci dice cosa siamo stati e cosa sempre saremo. Tortora fu assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione il 13 giugno 1987, a quattro anni dal suo arresto. Quando tornò in Rai era il 20 febbraio del 1987 e le prime parole che disse furono: «Dunque, dove eravamo rimasti?». In quelle parole c’era un percorso bloccato, una vita interrotta e condannata all’inferno senza prove. Eppure, anche dall’inferno Tortora era riuscito a fare la differenza, era riuscito a scrollarsi di dosso tutta la merda con cui lo avevano sommerso e a darci una lezione di umanità.