Lo strumento si è trasformato in una malintesa solidarietà nei confronti della vittima. Ma deresponsabilizza le amministrazioni che invece dovrebbero lavorare per la prevenzione

Più politiche pubbliche di prevenzione, e meno torsioni ad altri fini di strumenti giudiziari all’insegna del rimorso solidaristico. È un po' con questa frase che potrebbe sintetizzarsi il giudizio critico che tendono ad attirarsi gli enti pubblici, soprattutto territoriali, che reagiscono giudiziariamente a fatti eclatanti consumatisi sul proprio territorio in fallimento delle politiche di prevenzione. La casistica è molto ampia, a iniziare dagli atti di violenza. Naturalmente, anche su questo tema, così come su ogni altro, sarebbe semplificatorio e banalizzante, quindi sbagliato, generalizzare in modo indistinto.E tuttavia è un fatto che questa tendenza è da tempo in atto, secondo forme precise.

 

In particolare, è il caso delle tante vicende di cronaca che hanno come primo sbocco l’annuncio prima e il perfezionamento poi della costituzione di parte civile dell’ente pubblico territoriale nel giudizio penale instaurato nei confronti dell’autore del reato.

 

Riguardo a questa tendenza (a trasmodare, in definitiva, dalla sfera politica a quella giudiziaria), si impongono all’attenzione quanto meno due domande. La prima, è se non vi sia un qualche salto logico fra il risultato per tali vie giudiziariamente ottenibile dall’ente pubblico territoriale, per un verso, e la lesione delle situazioni giuridicamente rilevanti offese dallo specifico reato contestato nel singolo giudizio, per altro verso. Relativamente a dette situazioni occorre esprimersi evidentemente al plurale, perché in gioco finiscono con l’esservi tanto i diritti del soggetto di diritto che del reato è rimasto concreta vittima, quanto (almeno in astratto, in quanto rivendicati) quelli dell’ente territoriale che insinui la propria richiesta di risarcimento danni all’interno del giudizio penale nei confronti del reo per gli stessi fatti.

 

La risposta, non può che essere affermativa. Una richiesta di risarcimento danni in nome proprio (cioè del proprio territorio) non sarà mai, sul piano giuridico, in grado di esprimere congruenza con il danno procurato alla vittima dal reato né, dal punto di vista dell’interesse generale, di superare il dato oggettivo del fallimento, in quello specifico contesto, delle politiche di prevenzione.

 

Ma se è così, occorre passare alla seconda domanda: quale significato può ammettersi a questo tipo di iniziative? A ben vedere, siamo di fronte alla torsione di un rimedio giudiziario previsto dal sistema giuridico a tutela di specifici interessi (propri di chi lo attiva) per compiere, obliquamente, un gesto politico di solidarietà (più spesso venata di rimorso) nei confronti della vittima, che, lei sì, ha subito effettivamente una lesione dei propri diritti.

 

Si tratta tuttavia di una solidarietà malintesa, in particolare laddove un reato odioso venga compiuto in un contesto già ben noto per il suo livello di grave degrado. Perché la stessa consumazione di quel reato certifica il fallimento, in quel territorio, delle politiche pubbliche di prevenzione. E alcun significato positivo può assumere, di fronte a questo, l’abuso distorsivo di uno strumento giudiziario da parte dell’ente pubblico territoriale, in quanto rimedio strutturalmente insufficiente ad assolvere dalle proprie responsabilità morali e materiali.