È necessario un ritorno dell’intervento pubblico, basato sulla combinazione di Stato e mercato. E forse qualcosa sta andando nella giusta direzione

Il divario tra il Nord e il Sud del Paese è il risultato di una lunga storia iniziata con l’unificazione cui siamo arrivati (come i tedeschi) in ritardo rispetto alle altre nazioni europee. La Germania, tuttavia, aveva avviato l’unione doganale nel 1834 con lo Zollverein, che ha preceduto quella politica guidata da Bismarck. Noi invece siamo partiti privi di integrazione economica e con una economia tradizionale di antico regime.

 

Il Mezzogiorno nella sua storia, tuttavia, non è stato caratterizzato solo da arretratezza e stagnazione, ma ha evidenziato, nelle giuste condizioni di sistema, una grande capacità di reazione. Ciò in particolare nell’unico periodo di ininterrotta convergenza tra l’inizio degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta. L’Italia riuscì a realizzare una doppia convergenza sistemica, interna ed esterna, frutto di un indirizzo interventista nell’economia, ma niente affatto statalista, in cui emergeva in primo piano il ruolo dell’azione pubblica nella programmazione e nella definizione dell’assetto dell’economia, come nel pensiero di John Maynard Keynes, con una specifica declinazione riguardante l’implementazione della capacità produttiva e la crescita del sistema industriale nelle regioni meridionali. Il successo fu il risultato del riconoscimento della reciprocità degli interessi tra il Nord e il Sud nel senso della complementarità del rispettivo sistema produttivo e dell’evoluzione del Mezzogiorno non solo in termini di sbocchi di mercato.

 

Gli avvenimenti successivi (il superamento degli accordi di Bretton Woods, gli shock petroliferi, la ristrutturazione dell’apparato produttivo, le forme di liberismo senza regole, le crisi finanziarie internazionali e del sistema monetario europeo, il decentramento regionale, la fine del sistema bancario pubblico ed infine la globalizzazione) hanno restituito, quasi per intero, al territorio meridionale il divario, allontanandolo sempre più dall’obiettivo della convergenza.

 

La nascita e l’affermazione della «nuova programmazione», sebbene frutto del modello del new public management, ha infine rappresentato il colpo decisivo. Si è così tornati a forme di «intermediazione impropria», che hanno penalizzato il Paese nel suo complesso e offerto una immagine, talora fondata, di un Mezzogiorno opaco, sprecone e cialtrone, facendo nascere di converso la cosiddetta «questione settentrionale».

 

È dunque necessario un immediato ritorno dell’intervento pubblico, non di impianto statalista, ma basato su una armoniosa ed efficace combinazione di Stato e mercato, che ponga al centro degli obiettivi di strategia industriale la funzione dell’impresa, come soggetto storico e istituzione fondamentale dell’ordinamento e del mercato.

 

Il Sud ha un acclarato ritardo infrastrutturale e sono ormai definite le grandi scelte strategiche: dal completamento dei corridoi merci ferroviari dai valichi alpini ai porti del mezzogiorno, dall’Alta velocità di Rete al potenziamento delle autostrade, dagli aeroporti ai grandi interventi di manutenzione straordinaria. Si tratta tuttavia di attuare le progettualità in una prospettiva “euromediterranea”, ove la Zona economica speciale (Zes), supportata dalle infrastrutture, può aiutare a recuperare il vantaggio posizionale.

 

Euromediterraneo come strategia significa riequilibrio delle convenienze tra Sud e Nord Europa sulla base della centralità logistica del Mare nostrum. Le Regioni meridionali devono coordinarsi in macroaree funzionali ai settori e ai progetti individuati, usando lo strumento della cooperazione rafforzata, al fine di recuperare, nell’autonomia, una indispensabile strategia unitaria. Tutto ciò consentirebbe una razionale fruizione del bene posizionale, con riferimento non solo all’area geografica ma anche ai suoi beni paesaggistici e culturali, che rappresentano complessivamente una enorme rendita di tipo ricardiano.

 

Più di un terzo dei traffici mondiali, infatti, passa per il Mediterraneo ma solo una piccola quota ci riguarda. Si entra dal canale di Suez e si esce da quello di Gibilterra, per arrivare dopo altri cinque giorni di navigazione agli scali del Nord-Europa. In termini di consumi di energia, di sostenibilità ambientale, di inquinamento, di rispetto dell’ambiente e del clima, ciò è esattamente l’opposto di quanto si propone in astratto l’Unione europea che, in linea di principio avrebbe tutto l’interesse a realizzare un realistico bilanciamento nella prospettiva della convergenza e della reciprocità.

 

In questa logica va accolta con grande favore la recente istituzione, a partire dal 2024, di una Zes unica per il Mezzogiorno in cui l’esercizio di attività economiche può beneficiare di speciali condizioni in relazione agli investimenti e alle attività di sviluppo d’impresa.

 

Presso la presidenza del Consiglio dei ministri viene istituita la relativa cabina di regia, con compiti di indirizzo, coordinamento, vigilanza e monitoraggio, presieduta dal ministro per gli affari europei, il Sud e le politiche di coesione. Il Piano strategico di questa Zes ha durata triennale e definisce, anche in coerenza con il Pnrr, la politica di sviluppo, individuando, anche in modo differenziato per le Regioni che ne fanno parte, i settori da promuovere e quelli da rafforzare, gli investimenti e gli interventi prioritari e le modalità di attuazione.

 

Insomma, pare che qualcosa cominci a muoversi nella direzione giusta, speriamo soltanto che non si tratti di un fuoco di paglia.