Il ddl Calderoli mira a disgregare un Paese già diviso. Concedendo più prerogative alle regioni del Nord che hanno già più fondi. E generando conflitti. Eppure in Parlamento la discussione su eventuali correttivi è silenziata

Il Senato ha approvato recentemente il disegno di legge Calderoli sull’Autonomia differenziata delle Regioni, che ora è all’esame della Camera dei deputati. Questa proposta utilizza una lettura strumentale della pessima riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 e va di pari passo con la stravagante idea del premierato. Una logica di scambio tra Lega e Fratelli d’Italia per far eleggere un capo assoluto dal popolo e, come bilanciamento, realizzare una accozzaglia di prerogative delle Regioni del Nord; giustamente si parla di secessione dei ricchi, perché non si ipotizza uno Stato federale, ma si è scelto di accentuare la spinta degli interessi economici con la conseguenza della disgregazione egoistica di un Paese già diviso.

 

Questo disegno avventuristico, senza neppure il fascino delle provocazioni e del sogno di Umberto Bossi, è stato contestato da giuristi ed economisti con ricchezza di obiezioni che sono state tradotte in un disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare, il quale ha raccolto più di centomila firme ed è stato depositato al Senato (n. 764) il 1° giugno 2023 allo scopo di rimettere ordine agli articoli 116 e 117 della Costituzione, assicurando clausole di salvaguardia del ruolo del Parlamento nella definizione delle materie dell’eventuale regime differenziato, limitando la trattativa di stampo privatistico e affermando la supremazia della legge statale. Inoltre, veniva previsto lo spostamento di alcune materie delicate, in particolare la sanità (dopo l’esperienza della pandemia) e l’energia per il settore idroelettrico, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e non a quella concorrente.

 

Il testo fu depositato al Senato fidandosi del nuovo regolamento che all’articolo 74 prevede la certezza della calendarizzazione in Aula delle leggi di iniziativa popolare. L’arroganza del potere e le esigenze di pura propaganda hanno impedito che la legge di iniziativa popolare fosse esaminata prioritariamente e sulla base di un quadro costituzionale coerente, per affrontare successivamente l’attribuzione alle Regioni di materie in via esclusiva. Invece si è portato in Aula il testo senza la relazione della commissione Affari costituzionali e nel giro di due ore è stato bocciato senza pudore. Risulta evidente che l’esaltazione del potere del popolo è assolutamente strumentale, infatti la partecipazione dei cittadini è vilipesa e non presa in considerazione con rispetto. Senza rendersi conto che la sfiducia nelle istituzioni aumenta vertiginosamente e che la crisi della democrazia pare incontenibile e irreversibile; ma forse proprio questo è l’obiettivo.

 

Anche nella discussione contingentata sono emersi elementi di ragionevolezza sui rischi di un passaggio in alcune Regioni della istruzione e delle infrastrutture. È emerso un dato sconvolgente: i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni in questi anni superano i 2.200 casi ed è facile prevedere che la riforma aumenterà la confusione e che il contenzioso ingolferà ancora di più la Corte costituzionale. La differenza tra le Regioni a statuto speciale e quelle a statuto ordinario, motivata dalla tutela delle minoranze etniche e linguistiche e da un accentuato movimento autonomistico, rischia di svanire, spingendo a una folle rincorsa a differenze ingiustificate e alla ricerca di privilegi contro l’uguaglianza.