Opinioni
14 novembre, 2025Cominciamo da qui un confronto aperto su una riforma che minaccia l’indipendenza della magistratura
La copertina di questa settimana porta un titolo che suona come un monito antico ma drammaticamente attuale: “Divide et impera”. La massima latina non ha un unico autore certo, ma viene attribuita a Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, sebbene la locuzione stessa sia probabilmente di origine medievale. L'espressione indica una strategia politica volta a indebolire i popoli sottomessi, mettendoli gli uni contro gli altri per renderli più facili da governare. Nel nostro caso diventa la chiave con cui leggere la riforma della giustizia voluta dal governo, una riforma che – dietro l’apparente obiettivo di “modernizzare” il sistema – rischia di minare le fondamenta stesse dell’indipendenza della magistratura e, con essa, l’equilibrio costituzionale su cui si regge la democrazia.
Come spiega con chiarezza Silvia Albano, giudice civile presso il Tribunale di Roma e presidente di Magistratura Democratica, nell’intervista che apre il numero, la riforma introduce una separazione rigida tra magistratura giudicante e requirente, di fatto creando due magistrature. Non più un corpo unitario, autonomo, in grado di difendere la propria indipendenza dalle pressioni esterne, ma due corpi distinti, più deboli, più esposti ai condizionamenti del potere politico.
Il risultato, se la riforma andrà in porto così com’è, rischia di essere quello di una magistratura più timorosa, più isolata, meno libera di esercitare il proprio ruolo di garanzia. E una magistratura debole significa una giustizia debole: meno capace di difendere i diritti dei cittadini, meno pronta a far valere l’effettiva uguaglianza di fronte alla legge.
I padri costituenti avevano ben chiaro questo rischio. Dopo l’esperienza del fascismo, vollero un ordinamento che rendesse impossibile alla politica di controllare la giustizia. Affidarono l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati non alla sensibilità della maggioranza di turno, ma a principi costituzionali fermi e inalienabili. Oggi quella visione è messa in discussione.
Questa riforma, insieme a quella della Corte dei Conti, sembra ispirata all’idea di giustizia come fastidio, come intralcio, come potere da contenere. È un passo pericoloso. Perché in una democrazia senza magistrati indipendenti il potere politico si autoassolve e il cittadino resta solo davanti all’arbitrio.
Sulla riforma della giustizia, con questa copertina, L’Espresso ha deciso di aprire un confronto pubblico che proseguirà nei prossimi mesi. Daremo voce a costituzionalisti, magistrati, avvocati, ma anche ai rappresentanti della politica, perché il dibattito riguarda ogni cittadino che crede nello Stato di diritto. In primavera, con il referendum confermativo, saremo tutti chiamati a esprimerci su questa riforma. E per farlo con consapevolezza serve informazione, approfondimento. Questo è il compito di un giornale libero.
Ma questa settimana è anche un momento speciale per noi. L’Espresso compie settant’anni. Li festeggeremo mercoledì 19 novembre a Roma, con una grande serata dedicata alla nostra storia e al nostro futuro. Sarà l’occasione per ripercorrere le copertine che hanno fatto epoca, ricordare le inchieste che hanno cambiato il Paese, e soprattutto per discutere, insieme a ospiti e lettori, del ruolo che un giornale come il nostro deve continuare a svolgere: quello di osservatore critico, di coscienza civile, di spazio libero di confronto e di verità.
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