China Targets: così il regime cinese perseguita oppositori e minoranze all'estero. Anche in Italia

Un piano segreto per spiare e colpire in tutto il mondo chi protesta contro il governo di Pechino. Documenti, video e testimonianze raccolti da 43 testate giornalistiche coordinate da Icij, tra cui L'Espresso

Tra bandiere cinesi e francesi svolazzanti sotto un cielo piovoso, il presidente cinese Xi Jinping e sua moglie Peng Liyuan atterrano con un aereo di Stato allo scalo di Orly. È il 5 maggio 2024. Parigi è la prima tappa di un tour europeo di cinque giorni. Chiaro lo scopo: rafforzare i legami con la Francia e l'Europa. La capitale francese accoglie gli illustri ospiti con una folla festante di cittadini cinesi, c’è anche chi si esibisce nelle danze tradizionali del drago e del leone al suono di tamburi e gong. 

 

Nella zona centrale della città, in place de la Republique, l'artista cinese Jiang Shengda sente un segnale di chiamata emesso dal suo cellulare. È il leader del "Front de la Liberté en Chine", un piccolo gruppo di attivisti e intellettuali cinesi per la democrazia. Si sta preparando a parlare davanti a centinaia di manifestanti in quella piazza simbolo della libertà di espressione, protesta e dissenso. È nato a Pechino, ha solo 31 anni, ma è abituato ai comizi. Spesso raggiunge altri rappresentanti di minoranze perseguitate dal governo cinese, come gli uiguri, una minoranza etnica prevalentemente musulmana originaria del nord-ovest della Cina, i tibetani e i cittadini di Hong Kong, e si unisce a loro per contestare chi guida le politiche di violazione dei diritti umani e delle libertà civili: il presidente Xi Jingping. Ma quel giorno Jiang deve affrontare un atroce dilemma. Sa che quella telefonata arriva da sua madre, è lei che lo sta chiamando da Pechino, da 8200 chilometri di distanza. L'attivista sospetta che, dietro quella telefonata, ci siano poliziotti cinesi che usano gli affetti familiari per convincerlo a non disturbare il presidente nella visita in Francia. Per questo decide di non rispondere. 

 

Jiang Shengda è uno dei tanti cittadini cinesi che vivono all'estero, ma vengono presi di mira e tenuti sotto controllo dalle autorità di Pechino. Gli apparati di sicurezza agiscono direttamente, tramite operazioni di spionaggio, hackeraggio e sorveglianza delle vittime, ma anche indirettamente, attraverso pressioni su parenti, amici, colleghi e perfino ex insegnanti. Sono metodi che fanno parte di una sofisticata campagna orchestrata dal governo cinese per intimidire e zittire qualsiasi voce critica anche fuori dai confini, come quella di Jiang. Gli esperti la definiscono «repressione transnazionale».
China targets” è un'inchiesta giornalistica, coordinata dall'International consortium of investigative journalists (Icij), che analizza e documenta come le autorità cinesi sorvegliano e tengono sotto controllo dissidenti che vivono all'estero. L’indagine ha unito più di cento giornalisti di 43 testate internazionali, tra cui Le Monde, Paper Trail Media, Guardian, Washington Post, El Pais e, per l'Italia, L'Espresso, Domani e Irpi Media.  I reporter di trenta Paesi diversi hanno contattato e intervistato un campione di 105 vittime della repressione di Pechino: attivisti cinesi per la democrazia, cittadini di Hong Kong e Taiwan, esponenti di minoranze come gli uiguri e i tibetani, seguaci del movimento spirituale Falun Gong. I giornalisti hanno analizzato documenti riservati delle autorità di Pechino, in particolare un manuale di polizia del 2004 e le direttive impartite nel 2013 agli agenti addetti alla sicurezza nazionale, e hanno confrontato le azioni descritte in quelle carte con le esperienze vissute dalle 105 vittime. I cronisti hanno potuto esaminare anche interrogatori di polizia, registrati di nascosto, nonché telefonate e numerosi Sms tra 11 funzionari della sicurezza cinese e 9 delle loro vittime residenti all'estero.

 

In più di metà dei casi, gli intervistati hanno dichiarato che i loro parenti rimasti in Cina sono stati interrogati e intimiditi da ufficiali della sicurezza, una o più volte, e in diversi casi questo è successo dopo che loro avevano partecipato e manifestazioni o eventi pubblici all'estero. Sessanta hanno affermato di essere stati seguiti o spiati; 27 hanno segnalato di essere stati bersagliati con campagne diffamatorie su Internet; 19 hanno riferito di aver ricevuto messaggi sospetti o chiari tentativi di hackeraggio. Alcuni hanno aggiunto che i loro conti bancari in Cina e a Hong Kong sono stati congelati e bloccati.

 

Secondo le testimonianze raccolte, le intimidazioni a danno dei famigliari vengono gestite da funzionari e dirigenti del ministero della Pubblica sicurezza e di quello per la Sicurezza dello Stato: due delle agenzie cinesi che svolgono anche funzioni di intelligence. Ventidue persone hanno confidato di essere state aggredite da militanti del Partito comunista cinese o di aver subito minacce fisiche. La maggior parte degli intervistati non ha denunciato questi fatti alle autorità degli Stati esteri dove vivono: alcuni per mancanza di fiducia in un loro intervento, altri per paura di ritorsioni cinesi. Tra le persone che hanno presentato esposti, molti lamentano che la polizia non ha dato alcun seguito alle loro denunce, sostenendo che non ci sarebbero prove di reati perseguibili.
Nel manuale della polizia pubblicato nel 2004 dall'ufficio della Sicurezza pubblica della provincia di Guangdong, un capitolo è dedicato alla «ricerca all'estero», descritta come un'azione diversa dal «lavoro di intelligence all'estero»: è un'attività «a lungo termine», «mirata», che va «attentamente pianificata» e fa parte di «lotta segreta». L’obiettivo indicato in quel volume è chiaro: identificare persone e organizzazioni al di fuori della Cina, che «tramano, dirigono o finanziano attività che mettono in pericolo la stabilità socio-politica e la sicurezza nazionale del Paese», e ovviamente segnalarle ai vertici del Partito comunista cinese.

 

È in questo contesto che Jiang Shengda entra in scena a Parigi, dove è un artista conosciuto con il nome d'arte di Chiang Seeta. Nelle sue performance, costruisce un muro simbolico davanti alla sede dell'ambasciata cinese. O fa sfilare un attore che indossa abiti imperiali cinesi con la maschera di Xi per irridere alla sua incoronazione al XX° Congresso del Partito comunista cinese nel 2022. Questo spiega perché, nel maggio dell'anno scorso, quando il presidente arriva in Francia, lui sa di essere sotto controllo. I suoi genitori lo hanno tenuto informato: funzionari della polizia segreta, in borghese, si presentavano nella casa di famiglia a tutte le ore, costringendoli a incontri in luoghi non ufficiali, come sale da tè o sale private di ristoranti.

Quella telefonata da Pechino è la conferma: l'artista capisce che, quel pomeriggio, rischia di mettere in pericolo l'incolumità della madre e del padre. Eppure, prende il microfono, e si rivolge così, nella piazza di Parigi, ai manifestanti del Tibet e di Hong Kong: «Loro [la polizia cinese] ci hanno chiesto di tacere durante la visita di Xi Jinping… Queste minacce rientrano nella repressione transnazionale… che è solo un'estensione della tirannia in patria. Ecco perché la comunicazione tra le diverse comunità è così preziosa, davanti alla politica di divisione che la Cina porta avanti da tempo». A discorso ultimato, Jiang chiama i genitori. Apprende così che, poco prima che lui salisse sul palco a Parigi, gli agenti della sicurezza cinese avevano chiesto di vedere suo padre, nel cuore della notte, per lanciargli questo ammonimento: «Suo figlio all'estero sta facendo cose sono contro le leggi cinesi. Noi potremmo anche chiudere un occhio. Ma questa volta il "grande leader" viene lì in Francia. Se suo figlio fa qualcosa di imbarazzante, per noi diventa difficile gestire la situazione».

 

La vita di Jiang non è stata sempre così rischiosa. Anzi. È figlio di un ufficiale della sicurezza cinese e nipote di un alto funzionario governativo inviato nella Mongolia interna. La sua è stata una giovinezza dorata. Studia in scuole d'élite di Pechino, i suoi compagni sono, come lui, figli di personaggi ricchi e potenti. Lui ricorda, sorridendo, che molte persone sollecitavano favori dal padre influente, mandandogli a casa dolci prelibati e pesce costoso.  A 18 anni, la prima svolta. Per breve tempo si iscrive al Partito democratico cinese, un gruppo politico con base negli Stati Uniti che chiede riforme in Cina. Arrestato, viene accusato di incitamento alla sovversione del potere statale. Quindi scopre che la polizia ha compilato un voluminoso dossier spionistico su di lui, che comprende e-mail private e addirittura commenti di un vecchio insegnante della scuola elementare. Jiang resta in carcere per tre giorni, il passaporto gli viene revocato per un anno. Non è tutto. Il padre perde il posto nei servizi segreti e deve andare a lavorare per un'azienda statale.

 

Nel 2018 Jiang lascia la Cina per la Francia. L’ammira per le tradizioni democratiche, il rispetto del dissenso e la cultura della protesta sociale che risalgono alla Rivoluzione francese. A Parigi frequenta gli esponenti della comunità di Hong Kong che protestano contro le nuove leggi repressive imposte dal regime cinese. Poco per volta, Jiang diventa il leader del Front de la Liberté. Il suo comizio a Place de la Republique durante la visita di Xi segna il culmine della sua esposizione politica. Ma le minacce contro la sua famiglia cessano di colpo. La sua esistenza rientra nella normalità, per quasi un anno. Lo scorso marzo, Jiang controlla uno dei quattro telefoni che usa per comunicare in modo sicuro con la Cina. Subito si accorge di un messaggio di suo padre. Che gli chiede di richiamarlo. In una telefonata successiva gli rivela che alcuni agenti di sicurezza, tra cui uno che era già stato a casa sua, lo hanno voluto rincontrare. Questa volta gli hanno offerto da bere in un ristorante e, con tono cortese, gli hanno fatto capire che suo figlio Jiang deve smetterla di collaborare con un noto attivista che vive in Italia ed è conosciuto con il nome d'arte di Teacher Li.  Anche lui è una vittima della repressione transazionale. 

 

Nato 33 anni fa nel sud della Cina, dove suo padre fu perseguitato all'epoca di Mao Tse Tung, il professor Li si è trasferito in Italia nel 2015 e ha vissuto a lungo, con quattro gatti, a Milano, dove ha lavorato come professore, dopo essersi laureato all'Accademia di belle arti di Carrara. La sua battaglia comincia nel 2022, quando ha l'idea di rilanciare su Twitter (l'attuale X) i video, da lui ricevuti a migliaia, delle proteste in Cina contro le misure anti-covid, dove i manifestanti contestano anche il presidente Xi. Sui social, l’attivista che vive in Italia ha 1,9 milioni di follower, che gli spediscono quelle riprese, oltre a moltissime fotografie, prima che tutto venga cancellato dai censori di Pechino. Sono immagini rare e spietate sulla realtà cinese.

 

Da allora Teacher Li assurge a punto di riferimento per chi dalla Cina vuole diffondere notizie scomode, documentare scandali nelle scuole, incendi nelle fabbriche, proteste di lavoratori migranti che rivendicano salari da fame non pagati. In breve si ritrova schedato segretamente come «individuo chiave», da tenere sotto stretta sorveglianza. Un uomo da zittire. In Cina gli agenti della sicurezza fanno visita alla sua famiglia almeno una volta alla settimana, interrogano i suoi amici ed ex compagni di classe, pretendono di sapere quali sono i suoi contatti sui social media. Intanto le autorità gli congelano conti bancari e pagamenti online.

 

«Dopo la morte di mio padre, si sono presentati per porgere le condoglianze. Da allora in Cina non sono più tornati», confida Li ai giornalisti dell'inchiesta China Targets. Ma la persecuzione è continuata qui in Italia. «Negli ultimi due anni, per prudenza, sono uscito raramente. L'ambasciata cinese a Roma si è data da fare per scovarmi. Ha anche scritto alla scuola dove lavoravo, chiedendo di interrompere ogni rapporto con me. Ora sono costretto a guadagnarmi da vivere con YouTube».

 

Nel luglio 2023, Teacher Li ha chiesto asilo politico in Italia: lo ha fatto, come ha spiegato nell'intervista, perché «uomini del Partito comunista cinese avevano pubblicato su Twitter il mio indirizzo e i dati del mio passaporto, invitando i cinesi presenti in Italia a rintracciarmi. Mi hanno infatti trovato a Torino, dove nel frattempo mi ero trasferito e dove sono stato minacciato da sconosciuti». 

 

Nel novembre 2024 gli è stato finalmente concesso l'asilo politico. Ma l'accanimento continua tuttora, come lamenta Li: «Nel marzo scorso, ho saputo che l'ambasciata si è nuovamente attivata per sapere dove fossi. Per questo, in aprile, ho chiesto aiuto alle autorità italiane, che mi hanno consigliato di lasciare la città dove abitavo». Da allora Teacher Li si è rifugiato in un luogo da lui ritenuto sicuro: «Almeno finora non mi hanno scoperto». Ma continua a restare in allarme: «So che ci sono diversi poliziotti cinesi, provenienti da varie zone, che mi stanno inseguendo qui in Italia, contemporaneamente».

 

Le operazioni di caccia all'uomo, insomma, vengono orchestrate dal regime cinese anche nel nostro Paese. Già due anni fa, nel dicembre 2022, in base a un rapporto pubblicato dalla Ong spagnola Safeguard Defenders, L’Espresso aveva rivelato i dettagli di un programma di Pechino per spiare i dissidenti all'estero e rimpatriarli a forza in Cina. L'inchiesta del nostro settimanale aveva documentato l'esistenza di una rete di almeno 11 “stazioni non ufficiali della polizia cinese”, attivate segretamente sul territorio italiano, da Prato a Firenze, Milano, Roma. L'articolo ha aperto una discussione in Parlamento. Un deputato di +Europa, Riccardo Magi, ha domandato formalmente «se il ministero dell'Interno abbia mai autorizzato l'apertura di queste strutture, quali attività svolgono davvero e se sia stata aperta un'inchiesta». Il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, ha risposto che «non c'è alcuna autorizzazione all'attività dei centri in questione» e ha confermato che c'era un'indagine in corso, affermando: «Non escludo sanzioni in caso di illegalità».

 

Di quell'indagine italiana non si è più saputo niente. Ora l'inchiesta China Targets conferma e documenta una situazione ancora peggiore: il regime di Pechino ha un programma segreto di spionaggio, controllo e sorveglianza sistematica dei cittadini cinesi anche all'estero, un'attività praticata da anni, con direttive e metodi operativi descritti nei manuali di polizia e dei servizi.  

 

Nel febbraio 2025 Teacher Li è stato candidato al Nobel per la pace da una Commissione speciale del Congresso americano come «riconoscimento del suo impegno per la giustizia, i diritti umani e la protezione del popolo uiguro». Con quale effetto? «Sono aumentate le calunnie contro di me su Internet», rivela l'interessato. «Sono stati creati numerosi account che hanno cominciato a scavare nel torbido e a spargere voci false su di me. Però ho avuto anche qualche sostegno, sempre su Internet».

 

Teacher Li ha uno sponsor di rilievo anche in Italia. Giulio Terzi di Sant'Agata, una lunga carriera di ambasciatore conclusa negli Stati Uniti, già ministro degli Esteri nel governo Monti e ora senatore di Fratelli d'Italia, per lui si è speso molto. In un messaggio su Twitter del 2024, ha indicato Li come una delle vittime della «inarrestabile campagna di censura, da parte di Pechino, nel tentativo di bloccare qualsiasi voce di dissenso, in Cina come in ogni parte del mondo».

 

I giornalisti di Icij hanno inviato numerose domande alle principali ambasciate cinesi all'estero, nove delle quali hanno risposto. In particolare Liu Pengyu, portavoce della sede diplomatica di Pechino a Washington, ha dichiarato che le accuse di repressione transnazionale sono «infondate» e «inventate da pochi Paesi e organizzazioni per diffamare la Cina»: «Non esiste nulla di simile all’andare oltre i confini per prendere di mira i cosiddetti dissidenti e residenti cinesi all'estero». Le altre ambasciate cinesi in paesi europei come Finlandia, Svezia, Francia, Belgio e Croazia, hanno fornito risposte analoghe, definendo «pure invenzioni» le accuse di spionaggio all'estero. In qualche caso, i rappresentanti di Pechino specificano che le questioni di Hong Kong, Taiwan e Xinjiang sono «affari interni della Cina».

 

Anche L’Espresso ha mandato una serie di domande, riferite anche ai casi italiani, all'ambasciata cinese a Roma, da cui non è arrivata alcuna risposta.

 

Illustrazioni a cura di Icij

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso