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Politica
luglio, 2010

I dolori del vecchio Silvio

Le dimissioni di Brancher. La sentenza di Palermo. La ribellione sui tagli. Lo scontro con Fini. Le correnti nel Pdl. Il declino di Berlusconi è evidente. Ma sarà una cosa lunga

Non moriremo berlusconiani. Lo ripetono i fedelissimi di Gianfranco Fini e gli indipendentisti della Lega (indipendentisti da Arcore, s'intende), lo sussurrano perfino i berlusconiani più irriducibili. Forse vorrebbe urlarlo anche Silvio Berlusconi, ma lui è l'unico che davvero non può. Stanco, invecchiato, irritabile, frastornato. Paralizzato a osservare il suo tramonto. Il carisma in declino. Il continuo alternarsi di fughe in avanti e di smentite precipitose che gli esegeti di Arcore si ostinano a definire stop and go e invece è semplice confusione politica e mentale. La leadership che si sfarina, per usare il termine old style del socialista Rino Formica, tra sodali antichi condannati per mafia, il compagno negli anni belli, Marcello Dell'Utri, "l'amico di sempre" di Silvio, come viene definito nella "Storia italiana", e imputati di ritorno come il ministro Aldo Brancher, "il nuovo Previti", lo chiamano.

C'è un governo incapace di decidere, come la Nazionale di Marcello Lippi, che si parli di manovra economica o di intercettazioni: Tremonti come il ringhioso Gattuso, Alfano come l'evanescente Gilardino. C'è la folla degli aspiranti Eredi che si muove a lacerare la tela. E la guerra per bande che dilania la coalizione: fondazioni, correnti, sottocomponenti. Veleni, sospetti, complotti reali o immaginari. Un virus che colpisce non solo il Pdl, ma perfino l'alleato, finora in apparenza monolitico, la Lega di Umberto Bossi.

"È proibito ai parlamentari della Lega di rilasciare interviste ai giornali e di partecipare a trasmissioni televisive fino a nuovo ordine": la disposizione firmata Nicoletta Maggi, portavoce del Senatur, è giunta a deputati e senatori padani all'inizio della settimana, dopo che la conflittualità interna era salita pericolosamente sopra il livello di guardia, per la prima volta. È o non è la Lega l'unico partito leninista rimasto in circolazione? Ed ecco il silenziatore imposto - e guai chi sgarra - ai peones del Carroccio colpevoli di aver esternato con troppa facilità sul tema del giorno: la nomina di Brancher a ministro del Nulla, come lo hanno bollato i suoi ex confratelli paolini di "Famiglia Cristiana", perché nulle risultano le sue deleghe sulla "Gazzetta Ufficiale". Con la scelta disastrosa di invocare per sé il legittimo impedimento sul processo per la scalata ad Antonveneta, Brancher ha infranto i dogmi più resistenti della politica italiana: l'asse Berlusconi-Bossi e l'unità della Lega dietro l'Umberto. "Il povero Aldo è come la biglia bianca del biliardo, se lo tirano addosso per mandare altri giochi in buca", spiega cinico un notabile del Pdl. Ma è anche il depositario di tanti segreti: l'uomo Fininvest disposto a marcire in una cella di San Vittore per tutelare i capi dell'azienda, il protettore della Lega che secondo i pm riceve mazzette da Gianpiero Fiorani per organizzare in Parlamento il salvataggio del governatore di Bankitalia Antonio Fazio e della banca leghista Credinord. Insomma, "un eroe", come lo stalliere della mafia Vittorio Mangano per Dell'Utri. Eroi sono quelli che non parlano con i giudici, nel mondo berlusconiano. E in quello leghista che in questa vicenda ha rivelato usanze più siciliane che padane: silenzi, omertà. E faide di famiglia.

La Sacra Famiglia, raccontano le gole profonde della Lega incuranti dei divieti, ruota attorno al Capo, ormai più un'icona che un leader politico. Attorno al Timoniere di Cassano Magnago si muove una "Banda dei quattro" padana, simile a quella che circondò Mao nella fase declinante del suo potere: la vicepresidente del Senato Rosy Mauro che lo accompagna ovunque, il presidente della commissione Bilancio Giancarlo Giorgetti, tra i pochissimi autorizzati a contraddire il Senatur, il neo-capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni che invece pratica l'obbedienza incondizionata. Su tutti, la moglie di Bossi Manuela Marrone, la Jiang Qing del Carroccio, la custode dell'ortodossia che stabilisce i gradini della gerarchia.

Sulla Famiglia si addensano gelosie e più corpose maldicenze. Per esempio, l'idea di entrare nel business delle centrali nucleari con la multiutility lombarda A2A seguita in prima persona da Bruno Caparini, padre del deputato Davide e proprietario del castello di Ponte di Legno dove Bossi trascorre le vacanze. Oppure l'irresistibile ascesa del deputato ligure Francesco Belsito, prima infilato nel cda di Fincantieri, poi promosso sottosegretario e infine nominato tesoriere della Lega, forse come ricompensa per l'impegno dimostrato a sostenere la candidatura alle elezioni regionali di Renzo Bossi, anche sul fronte del fund raising. Aria di corte, con i famigli che ingrassano e si spartiscono gli incarichi alle spalle del Capo. Aria di Cricca in camicia verde. È stata la Cricca a gettare addosso a Roberto Calderoli la colpa della nomina di Brancher che sarebbe avvenuta all'insaputa di Bossi, una patente di infedeltà addossata al Calderul a uso e consumo dei giochi di potere interno. Figuriamoci, Umberto sapeva tutto, ha subito reagito l'inventore del Porcellum. Come dimostra la cena in una mite serata romana, in un ristorante nel cuore di via del Corso, quando davanti a una ventina dei suoi, il Capo ha telefonato a Brancher e gli ha esposto il suo piano: "Tu farai il ministro dell'Agricoltura e Galan andrà allo Sviluppo economico". Ma il pasticciato ricorso di Brancher al legittimo impedimento per sfuggire al processo di Milano e il successivo scontro istituzionale con il Quirinale hanno fatto saltare tutto. E ora la Lega è obbligata a portare a casa qualche successo. I decreti attuativi del federalismo, misure differenziate per gli enti locali previsti dalla manovra Tremonti: meno tagli per i comuni virtuosi, mano pesante con chi ha vissuto al di sopra dei suoi mezzi. "La manovra per noi è come la riforma delle pensioni nel '94", spiega un deputato leghista. Un paragone non casuale: su quel provvedimento Bossi staccò la spina al primo governo Berlusconi. Nessuno crede che la Lega provocherà una nuova crisi: "Ma se pensano che perderemo i nostri elettori per colpa di Berlusconi e Fini si sbagliano di grosso".

Magari il Pdl fosse diviso solo tra il premier e il presidente della Camera. Lo scontro tra i due ha fatto il miracolo: nel Pdl le correnti si moltiplicano come pani e pesci. L'ultima arrivata, "Liberamente", dovrebbe in teoria raccogliere i fedelissimi del premier, il motore è un forzista della prima ora, Mario Valducci, una garanzia di lealtà. Ma il Cavaliere è scontento: una sigla in più aumenta il caos senza regia in cui versa il suo partito. E poi "Liberamente" ha l'obiettivo neanche troppo occulto di azzerare l'influenza di uno dei tre coordinatori del Pdl, il plurindagato Denis Verdini. Alla prima uscita in Toscana un noto imprenditore della regione ha chiesto come condizione per partecipare che non fosse invitato Verdini. Condizione accettata con entusiasmo, i neo-berlusconiani infatti non avevano mai avuto la fantasia di invitarlo. E nella nuova associazione si dà molto da fare un personaggio di primo piano ancora non logorato, il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini. È lei, l'amazzone del berlusconismo, che sta raccogliendo le adesioni per la corrente tra i parlamentari e i ministri. Futuro trampolino di lancio per candidarsi alla leadership del dopo-Cavaliere, come erede della purezza berlusconiana, ora che la stella del delfino designato Angelino Alfano si è appannata, tra scissioni in Sicilia e l'impantanamento del governo sulla giustizia.

Ma il parterre degli aspiranti al trono del monarca di Arcore è molto affollato e tutti sono in movimento febbrile. Di Fini si sa: nessuna occasione è persa per smarcarsi dal Cavaliere. Una fama che ormai supera i confini nazionali. "Anche da noi capita che tra presidente del Parlamento e capo del governo ci sia qualche dissidio", ha alluso malizioso il presidente della Knesset durante l'ultima visita di Fini in Israele. Il primo inquilino di Montecitorio ha sorriso grato. "Ma nonostante le apparenze Gianfranco è il più leale, l'unico che non ha un gioco alternativo al Pdl e all'alleanza con Berlusconi", ragiona un azzurro di lungo corso. "La Lega invece ti sta vicino, certo, ma a distanza di pugnale". Il presidente della Camera ha in comune con Berlusconi un unico punto: l'immobilismo. Fini non ha i numeri per imporre la sua leadership ma può impedire che sia esercitata quella di Silvio, come si è visto nel caso delle intercettazioni, rinviate in aula a fine mese. O sulle riforme della Costituzione che sembravano cosa fatta dopo il trionfo delle elezioni regionali: la bozza Calderoli, chi l'ha più vista?
Andare avanti alla giornata, in attesa che qualcosa succeda, è la tattica finiana della guerriglia che almeno un risultato l'ha raggiunto: non è più l'unico pierino della maggioranza. Sulla manovra economica sono in rivolta tutti i governatori, anche quelli del Pdl che appena tre mesi fa hanno solennemente giurato in piazza San Giovanni davanti a Silvio sulla loro unità di intenti. Regista della rivolta è un altro aspirante illustre finora rimasto in sonno, il governatore lombardo Roberto Formigoni. Si è messo a capeggiare il fronte del no delle regioni, per colpire due bersagli con un colpo solo: il rivale Tremonti e la Lega. Sicuro così di conquistare la gratitudine di Berlusconi che sulla manovra non ha mai voluto mettere la faccia lasciando l'incombenza al ministro dell'Economia. Missione compiuta: un emendamento al Senato introduce i tagli flessibili, una categoria dello spirito, da concordare con le Regioni. Formigoni batte Tremonti uno a zero, in attesa della partita decisiva, che ancora tarderà ad arrivare.

Perché nonostante la maggioranza in sfarinamento, il Pdl senza leader e la Lega che scopre il brivido della divisione, il Cavaliere continua a rimanere l'unico punto di riferimento. Pronto a sventolare la minaccia delle elezioni anticipate, un classico, ma ben sapendo che invece sarà costretto a tirare a campare per altri diciotto mesi. Non per fare le grandi riforme, quelle ormai fanno ridere addirittura meno delle sue barzellette, che è tutto dire. No, serve tempo per inserire il lodo Alfano nella Costituzione, lo scudo che consegnerebbe a Berlusconi l'immunità dai procedimenti giudiziari in attesa del salto verso il Quirinale. Per il successore di Giorgio Napolitano si voterà nel 2013: il premier ha il disperato bisogno di arrivarci senza amicizie ingombranti, senza i Dell'Utri e i Brancher, senza i Mills e senza le D'Addario. L'ultima prospettiva per questo Cavaliere evaporato, che ha smarrito sogni e futuro, e con il sole in tasca che malinconicamente volge al declino.

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