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Politica
maggio, 2011

Giulianone? Menava già nel '97

Ripubblichiamo qui di seguito un articolo del nostro settimanale di 14 anni fa.  Quando Ferrara era direttore di 'Panorama' e  usava quel pulpito per insultare un po' tutti, a partire da 'L'Espresso'....

Da L'Espresso del 21 agosto 1997

Diciamocelo: poche cose sono più stucchevoli delle beghe fra concorrenti. Soprattutto quando i concorrenti sono giornali, cioè organismi che dovrebbero entro certi limiti disinteressarsi di sé, e concentrarsi su come servire al meglio i propri lettori. Per questo stupì che una persona intelligente e di buone letture come Giuliano Ferrara, assumendo alla fine del 1996 la direzione di "Panorama", si affrettasse a lanciare "The other place", una rubrica fissa sui presunti errori commessi dall'"Espresso". Sembrava un'idea bislacca, anche se non incompatibile con il gusto goliardico-funebre che è proprio di Giuliano. O forse era una citazione dagli annali del veterocomunismo, a lui ben noti: la pubblicistica del Pci e dei gruppuscoli è sempre stata piena di mattinali variamente denominati, di rassegne stampa compilate con un inconfondibile miscuglio di supponenza e di livore.

Con il passare dei mesi, però, si è visto che in quella buffa rubrica non c'era nulla di improvvisato, né tanto meno di giocoso. Essa era soltanto il primo prodotto di un nervosismo o, per meglio dire, di un'ossessione che, per imperscrutabili motivi, attanaglia il clan di Arcore. Di questo clan, alla cui recentissima furia moralizzatrice ("L'Espresso" n. 31 e 32) l'estate 1997 deve i suoi rari momenti di ilarità, il settimanale di via Po, evidentemente sopravvalutato, è finito per diventare un bersaglio permanente. E le ultime settimane segnano un'ulteriore escalation. Basta dare un'occhiata ai giornali diretti da Ferrara.

Maestro di immagini mortuarie

Sul "Foglio dei fogli" del 21 luglio, per esempio, i giornalisti dell'"Espresso" sono definiti «cani perduti senza collare», «randagi sempre più irosi»; essi emettono il «latrato disperato di un cane che affoga»; i loro sono «progetti un po' folli [...] perseguiti con disarmante imperizia»... Mica male, detto da uno che di bestie se ne intende. Lo zoologo ci dà dentro, e addirittura evoca una nuova specie, gli espressones: «Il manifesto degli espressones», tuona Ferrara, «è l'album fotografico della Ariosto». Qui balena, finalmente, una prima spiegazione della rabbia: brucia ancora il ricordo delle immagini, pubblicate nella primavera 1996, che raffiguravano la corte di Silvio Berlusconi come un balordo Polo delle Vanità.

Ma questo è soltanto l'inizio. Sul "Foglio" del 2 agosto, ecco che "L'Espresso" viene descritto come «baedeker dei forcaioli», o anche «bignamino del partito delle Procure». Meglio forse il partito degli Indagati? Passano ancora pochi giorni e sul "Foglio dei fogli" dell'8 agosto, edizione speciale allegata a "Panorama", si legge che "L'Espresso" «luccica nella sagrestia dell'Ulivo come una candela votiva a disposizione delle sottoprocure e dei sottosegretari», è «una specie di altarino permanente che offre in sacrificio al potere progressista chiacchiere salottiere sui Dalemoni...». Che sfoggio di immagini mortuarie, ragazzi: tocchiamo ferro. Infine, sul "Foglio" del 9 agosto, ultima (per ora) raffica da Arcore: «"L'Espresso" bisogna capirlo... È in crisi... Ha perso grinta e autorevolezza... Vende poco, molto meno del concorrente, di cui deve inseguire gli scoop e gli argomenti». Il nervosismo, a quanto pare, non ispira modestia, e nemmeno signorilità.

Senza grandi problemi di vendite Ma perché tanta agitazione? Perché non concedersi, piuttosto, qualche bagno rinfrescante? Che i problemi nascano dall'andamento di "Panorama", onestamente pare da escludere. La rivista di Segrate continua a vendere più dell'"Espresso", come avviene ininterrottamente dal remoto 1980. Anche adesso è così: a fine luglio, circa 530 mila copie contro 400 mila. Grazie a un parco-abbonati superiore a quello del concorrente di oltre 100 mila unità (e ampliato con gli ex fedelissimi del defunto "Epoca"), e grazie soprattutto alle amorevoli respirazioni bocca-a-bocca praticate dalla casa editrice Mondadori. Nelle prime 32 settimane del 1997, infatti, "Panorama" è stato arricchito con 30 videocassette di film; 16 videocassette del "National Geographic" su orsi, iene e quant'altro (ancora bestie, ma di qualità); una videocassetta sulla Somalia; 2 cd-rom; 18 pregevoli carte stradali del Touring club; un meno pregevole libro ("Attentato al governo Berlusconi"); per finire con la menzionata edizione speciale del "Foglio dei fogli". Una spettacolare serie di iniziative, insomma, per di più quasi sempre pubblicizzate con spot in tv. Così Ferrara ha sì perso copie rispetto al suo bravo predecessore, Andrea Monti, ma ha potuto contenere la perdita entro un sopportabile 5,5 per cento.

Politico prestato al giornalismo Chi conosce Giuliano, d'altra parte, fatica a pensare che siano banali questioni di tiratura a togliergli serenità. Non per nulla, fra i giornali affidatigli dalla famiglia Berlusconi, egli ama il minuscolo, guizzante "Foglio" molto più del massiccio "Panorama", della cui redazione di ottimi professionisti non sembra sempre ansioso di servirsi. Figuriamoci se il militante nonché dirigente del glorioso Pci, se il supertifoso nonché eurodeputato di Bettino Craxi, se il ministro e portavoce nonché consigliere-ghostwriter di Berlusconi si abbassa a grige considerazioni di mercato. No, il nervosismo con ogni probabilità proviene, come lo stesso Ferrara confessa, e com'è nella sua natura di uomo politico prestato al giornalismo, da un impulso squisitamente politico: dalla sua voglia di rompere «il vecchio monopolio di sinistra dell'aggressività a mezzo stampa» ("Il Foglio dei fogli", 21 luglio). Ed è alimentato, il nervosismo, dalle critiche che "L'Espresso" muove alla sua campagna moralizzatrice contro Antonio Di Pietro, contro Mani pulite, contro la Procura di Palermo.

Giustiziere in simbiosi con Forza Italia Perché Giuliano ha questo di ammirevole: vuol menare le mani, e sferrare colpi sotto la cintura degli altri, ma spera anche di essere benvoluto dalle sue vittime, o almeno rispettato. È una quadratura del cerchio che spesso gli riesce. Anche "L'Espresso", se egli fosse un normale giornalista, non aprirebbe bocca, e si limiterebbe a godersi lo spettacolo del garantista che diventa forcaiolo per amore di Berlusconi: del resto le polemiche fra concorrenti, si diceva all'inizio, fanno pena. Sfortunatamente però Giuliano, pur così ricco di talento, non è un normale giornalista. Nei suoi incarichi di carta stampata e di tv, la politica ha messo lo zampino fin dagli anni Ottanta: fu sotto gli auspici di Claudio Martelli che nacque la sua avventura a "Reporter"; fu dopo un intervento di Craxi, come ricorda Antonio Ghirelli (Marco Barbieri, "Il grande fratello Orco", pag. 12), che cominciarono la sue performance al Tg2. La situazione attuale è lo svolgimento logico di quelle premesse.

Non è colpa nostra se "Panorama", nato e cresciuto come emulo italiano di "Time", di "Newsweek", cioè come grande settimanale indipendente, è diventato proprietà di un leader politico, il quale a sua volta l'ha dato da dirigere a un politico suo collaboratore. Questa è una stravaganza che non esiste in alcun altro angolo dell'Occidente. Se nessuno ci fa caso, è perché essa scaturisce da un'anomalia ancora più grave: il secondo imprenditore del paese è al tempo stesso il titolare di un enorme impero mediatico e il capo di un fronte parlamentare che dispone di oltre il 40 per cento dei seggi. Al "Corriere della Sera", una dozzina d'anni fa, si cercò di ridurre l'indebita commistione fra giornalismo professionale e fedeltà di partito: il vertice della Rizzoli dissuase il direttore di allora dal dare a Giuliano il compito di notista politico, con l'argomento che era apertamente schierato con il Psi. Giuliano Amato, allora numero due a palazzo Chigi, chiese spiegazioni. Lui, Ferrara, non fece storie e accettò una diversa collocazione. Ma erano altri tempi.

Non è colpa nostra se Giuliano, da uomo pugnace qual è, e anche da giustiziere dilettante qual era nelle sue prime trasmissioni televisive, si è subito messo alla testa della lotta berlusconiana per spedire sotto processo, e possibilmente in prigione, i magistrati di Mani pulite, e per fare di Di Pietro il simbolo vivente dell'immoralità. La faziosità è diritto sacro e inviolabile di ogni operatore dell'informazione. È anche lecito però segnalare le occasioni in cui essa si dispiega in stretto collegamento con le iniziative politico-giudiziarie di un leader imputato in vari processi, come Berlusconi, e con le più squallide mobilitazioni di alcuni gruppi parlamentari. Valga per tutti l'esempio della campagna contro Ilda Boccassini, lanciata da "Panorama" in eccezionale contemporanea con la vergognosa richiesta di sospensione e incriminazione del pm milanese, reo di indagare su Cesare Previti e Renato Squillante, avanzata l'8 luglio da 40 deputati di Forza Italia. Non è colpa nostra se, nella concitazione della lotta, Giuliano scaglia contro il pool Mani pulite accuse che fanno letteralmente cadere le braccia. Come quella di aver voluto provocare la caduta del governo Berlusconi e di aver così violato l'articolo 289 del codice penale, "Attentato contro organi costituzionali": 10 anni di galera come pena minima. È una stupidaggine di derivazione anche craxiana (vedere articolo a pag. 59) intorno alla quale Ferrara si affanna fin dal 5 ottobre 1994, e alla quale ha appena dedicato, in piena estate, addirittura un libro-strenna di "Panorama".

Non è colpa nostra se, contro Gian Carlo Caselli (da lui definito «un fanatico da brivido») e la Procura di Palermo, Giuliano fa scendere in campo un simpatico combattente e reduce come Lino Jannuzzi. Il quale, dall'alto della sua complessa biografia, enuncia tesi, come dire?, coraggiose. Affermando, per esempio, che quella consumatasi contro il giudice Corrado Carnevale è la «storia di una vera persecuzione».

Non è colpa nostra se Giuliano non si rende conto che la parola moralità, new entry nella retorica del grande comunicatore Berlusconi ("L'Espresso" n. 32), ha un suono grottesco sulle labbra del cavaliere e dei suoi cari.

Io scrocco, tu scrocchi, egli scrocca... Non è colpa nostra se Giuliano si diverte come un pazzo, com'è comprensibile, nel dare del Grande Scroccone a Di Pietro, ma non provvede prima a domandarsi se lui ha tutte le carte in regola per infliggere a chicchessia simili frustate. Di Pietro ha fatto molto male a farsi prestare soldi quando era magistrato, ed egli stesso del resto oggi lo riconosce: meglio tardi che mai. Ma chi monta questo come un caso di scrocconeria particolarmente sordido non può non ricordare che, nel periodo in cui fu eurodeputato di Craxi (1989-1994), figurò giulivamente fra i campioni italiani di assenteismo.

Qualche dato? Nel luglio 1991 si scoprì che dall'inizio della legislatura Giuliano aveva disertato ben 78 sedute su 115, partecipando a un'intera sessione soltanto in due occasioni; delle prime 25 sedute del 1991 ne aveva mancate 24. Nel 1992-1993 si fece vedere a 11 sedute soltanto. Nell'ultimo anno, 1993-1994, fu presente a 20 sedute su 68 (il record della latitanza, una sola presenza su 68, toccò al prete tambronian-socialista Gianni Baget Bozzo, oggi collaboratore di "Panorama", che si giustificò con un disarmante «Sono vecchio, ho 69 anni»). "Il Messaggero", dividendo i pingui emolumenti di Ferrara per il numero delle comparsate, calcolò che ogni sua presenza era costata ai contribuenti ben 7,5 milioni. Non per questo tuttavia risuonarono accuse di immoralità. Nella vita esistono anche i peccati veniali. Una modica quantità di denaro a sbafo non si nega a nessuno.

Il vizio togliattiano dell'insulto Non è colpa nostra, infine, se Giuliano conduce le sue polemiche strizzando l'occhio ai metodi da Pci anni Cinquanta dell'ingiuria, della denigrazione personale, della cafoneria pseudo-colta e politically correct: quelli, per intenderci, che spingevano Palmiro Togliatti a definire «pidocchi», nel 1951, alcuni dissidenti del Pci. Certo occorre comprensione per chi ebbe in sorte un'infanzia a Mosca, e crebbe nel lugubre culto di quel Migliore che Martelli ha poi definito «carnefice e complice dello stalininsmo»; ma, per genuine che siano le nostre passioni, sarebbe ora che tutti cambiassimo stile.

Nel 1957 il padre di Giuliano, Maurizio Ferrara, pubblicò su "Rinascita" uno scritto satirico intitolato "La gran caccia alle Antille". Voleva essere una risposta a "La grande bonaccia delle Antille", racconto-parabola di Italo Calvino sull'immobilismo togliattiano. Fra i propri bersagli, Ferrara senior inserì un personaggio chiamato "Ughetto il mafiosetto": si trattava di Ugo La Malfa, uomo la cui vita non offriva il benché minimo pretesto a simili accostamenti. Adesso è Ferrara junior a rinnovare fasti e nefasti del lessico familiare, con titoli ("Foglio dei fogli", 14 luglio) come "I ragionamenti da serenissimo mafiosetto del vecchio Giorgio". Va da sé che anche il presunto mafiosetto del 1997 è una persona per bene, cioè Giorgio Bocca, incidentalmente collaboratore dell'"Espresso". Che tristezza, Giuliano, questo reprint. Se proprio non puoi fare a meno di distribuire insulti, abbi almeno un minimo di originalità.

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