Jobs act, Renzi affronta sindacati e minoranza dem: "Con la fiducia conseguenze politiche"
Concluso l'incontro del premier con i sindacati. Adesso affronta Confindustria e infine i rappresentanti della polizia. Intanto il Senato affronta il Jobs act sul quale il Governo chiederà il voto di fiducia
di Susanna Turco
7 ottobre 2014
E’ la magnifica scansione dei tempi, a dire tutto. Prima i sindacati, poi Confindustria e le altre associazioni datoriali e infine i sindacati di polizia (reduci dall’ira per il blocco dei tetti agli stipendi).
Non è uno sketch comico, in stile “l’ufficio è aperto dalle otto, alle otto”: è l’agenda del premier Matteo Renzi per la prima mattinata a Palazzo Chigi. Spiega già da sola, con evidenza palmare, quanti pensieri il premier voglia dedicare a ciascun incontro, e quale sia lo spirito. Tanto più che, alle nove e mezza - dopo la Triplice e prima dei poliziotti, diciamo - l’Aula del Senato comincia ad affrontare il Jobs Act, sul quale aleggia fortissima l’opzione fiducia, e dunque l’eventuale rivolta della minoranza Dem oggi minacciata da Stefano Fassina. Insomma nel complesso una specie di danza tribale attorno al Lavoro, con momenti che sia annunciano epocali. [[ge:rep-locali:espresso:285505038]] Anzitutto per il rapporto coi sindacati, altrimenti definito con ironia dalla leader Cgil Susanna Camusso “un’ora sola ti vorrei”. Il premier ha annunciato la riapertura della Sala Verde, quella dedicata al confronto coi sindacati, una settimana fa in pompa magna: la novità è che l’apertura sarà attimale, durerà appena sessanta minuti, dopo una lunga tradizione di nottate intere.
In sé l’evento è comunque significativo, perché è la prima volta dopo anni che il governo lo celebra; a maggior ragione, visto che Renzi ha sempre negato qualsiasi dialogo con Cgil, Cisl e Uil. Chiaro pure l’intento mediatico, anzitutto dal lato di Palazzo Chigi: “Riapriremo persino la sala verde di Palazzo Chigi, quella degli incontri coi sindacati, si vede che sto invecchiando”, gigioneggia infatti il premier, avendo tutta la convenienza alla riapertura.
Assai meno chiara la sostanza, ovvero la sua utilità. La Camusso lamenta che l’ordine del giorno, in cui si parla solo di “riforme”, “è generico”, ma chiarisce: “Andiamo a sentire ma non basta un incontro per dire che vanno bene le politiche del governo. Se il governo va avanti con le politiche annunciate è evidente che andrà avanti la mobilitazione”. Muso duro? Fino a un certo punto: “In altri tempi, a queste condizioni, i sindacati si sarebbero rifiutati di andare a un incontro così”, ragionano nei corridoi di Palazzo, spiegando la debolezza intrinseca in cui si dibatte la triplice.
Insomma l’incontro sarebbe una dimostrazione di forza del premier, più che altro. Tanto più che, sulla sua e-news, Renzi spiega che andrà a presentare la proposta sul Tfr in busta paga, per “verificarne la fattibilità”: l’idea, ancora tutta da scrivere per finire all’interno della Legge di Stabilità e intanto ripetutamente sponsorizzata, è stata accolta dai sindacati con una certa freddezza, ma era in passato una proposta della Fiom di Landini.
Cominciare il confronto da lì, equivale insomma a mettere il dito nell’occhio alle differenze interne, come prodromo per una serie di annunci, piuttosto che per l’apertura di un dialogo in senso proprio. Mentre la Camusso insiste nel paragone tra Renzi e Thatcher, del resto, è soltanto il leader (non a caso uscente) della Cisl Raffaele Bonanni a far brillare un ago di ottimismo in fondo al tunnel: “In un’ora si possono fare molte cose”, dice, “spero che il governo cambi davvero strada”.
Fosca, e solo fosca, è invece l’aria nel Pd sul Jobs act, terreno sul quale renziani e minoranza restano asserragliati ciascuno nel suo castello. I primi, inclinando verso il ricorso alla fiducia da parte del governo; gli altri, minacciando sfracelli. Stefano Fassina, via tweet, lancia il messaggio più eloquente: “Se la delega resta in bianco è invotabile e con la fiducia conseguenze politiche”. Insomma: se si soffoca il dibattito interno, chissà dove si va a finire. “Sul piano politico sarebbe un segnale di profonda rottura”, dice Pippo Civati. Mentre il presidente della commissione Lavoro del Senato Cesare Damiano avverte: “Mettere la fiducia sarebbe un atto sbagliato e grave, occorre proseguire il dibattito sugli emendamenti che abbiamo presentato, senza tagliole”. Insomma, ci sono tutte le nuance della pattuglia dei critici. Compresa quella, appena più soft, di Gianni Cuperlo: “Il governo ci pensi bene, la fiducia è lo strumento meno adatto”, avverte. Tanto più perché la faccenda è stata impostata su un “prendere o lasciare”, mentre la “fiducia non si vota a prescindere dalla riforma”. Insomma la tentazione dell’ “azzardo”, come la chiama il deputato Pd Matteo Colaninno, fa ben capolino nelle fila della minoranza: ma la parola, intanto, è al governo.