Matteo Renzi gioca a fare il trattore nel partito
e divide la minoranza del Pd a suo piacimento
Post bersaniani, ex dalemiani, civatiani, cuperliani, area riformista, sinistra di governo e non solo. Il premier ha gioco facile nel muoversi in mezzo all'opposizione interna, dialogando con l'una o con l'altra corrente. E riuscendo per ottenere sempre quello che vuole
di Susanna Turco
14 novembre 2014
E’ una tenzone quasi tutta declinata al maschile. Che riproduce in scala ciò che una volta riguardava tutto il Pd: la poetica, o il tic, della divisione. Novità del renzismo è infatti che – mentre chi sta col segretario si muove a monolite – a dividersi è, in pratica, solo una parte dei dem: la minoranza.
I post bersaniani, gli ex dalemiani, i civatiani, i cuperliani, l’area riformista, la sinistra di governo, insomma quel pezzo del Pd che da solo riproduce le dinamiche del Pd che fu, mentre il segretario guarda da un’altra parte.
Un fenomeno che Matteo Renzi guarda come a un mammifero strano e che tratta come un trattore la terra da arare: l’obiettivo, in sostanza, è dividerla in solchi sempre nuovi. Farla a fette. Faccenda che, anche da ultimo con la mediazione sul Jobs act raggiunta nella riunione di giovedì alla Camera, gli è riuscita benissimo.
Nemmeno il tempo di dire opposizione interna e s’è portato di qua nomi come Roberto Speranza, Pier Luigi Bersani, Cesare Damiano che pure fino a poco prima scuotevano la testa, lasciando di là Pippo Civati, Gianni Cuperlo, e anche Francesco Boccia. Stavolta è andata così, la prossima il trattore potrebbe segnare le zolle diversamente. Intanto, il segretario canta vittoria su La Stampa, spiegando di avergli lasciato le briciole: “Sono sempre gli stessi, una decina, molto divisi, anzi ulteriormente divisi al loro interno... Io vorrei tenere tutti dentro, naturalmente, e, se per questo serve non votare in Direzione perchè altrimenti vanno sotto, o fare piccole modifiche al Jobs act, volentieri”.
Stefano Fassina
Ecco, piccole modifiche al Jobs Act. Contentini, volentieri. Vale a dire, far rientrare nel provvedimento sul Lavoro ora in discussione alla Camera anche l’articolo 18, in particolare l’obbligo di reintegro anche per i licenziamenti disciplinari, secondo l’impostazione già contenuta nell’ordine del giorno approvato dalla direzione del Pd.
Così la forma è salva, Fassina può dire: “Renzi ha fatto un passo indietro”. E pazienza se, come spiega già il responsabile economico Filippo Taddei, si potrebbero poi sterilizzare le tutele dell’articolo 18 introducendo nel Jobs act la cosiddetta “opzione aziendale”, cioè la possibilità per l’azienda di dire comunque no al reintegro, pagando di più. Son dettagli che si vedranno più in là.
pippo civati
Intanto, il capogruppo Roberto Speranza gorgheggia trattarsi di “una sterzata a sinistra, una riaffermazione della dignità delle Camere”, chiarendo che, una volta aperta la possibilità di fare modifiche rispetto al testo uscito dal Senato, un voto di fiducia alla Camera non sarà uno scandalo. Mentre Pippo Civati continua a dire che lui il sì finale al provvedimento potrebbe non darlo, e Boccia guarda alla legge di stabilità, sperando che “la prossima settimana” si apra la possibilità di “mettere qualche soldino in più sugli ammortizzatori sociali” altrimenti una riforma come quella del Lavoro “a saldo zero non si può fare”.
Insomma, invano Civati – nei momenti in cui maggiore si condensa lo scontento – invita gli altri a “fare squadra”. Sì è che, in effetti, anche a guardarne le biografie, c’è troppo poco in comune. Anche tra le nuove leve. Civati è nato e cresciuto nell’Ulivo prodiano, lato Ds. Boccia è venuto su con Andreatta ed Enrico Letta, lato consigliere economico e comunque Margherita. Speranza è un trentacinquenne d’apparato diessino, “un giovane di lungo corso” come l’ebbe a presentare il suo mentore Pier Luigi Bersani, quando gli fece fare il gran salto nella politica romana. Cuperlo è della generazione dei sospesi, vecchia guarda del Pci-Pds-Ds presa in mezzo dal nuovo: troppo giovane per fare il rottamato, troppo strutturato per incarnare un futuro imberbe.
BOCCIA_WEB
C’è poi naturalmente la questione dei ruoli, e delle aspettative. Civati ha rifiutato programmaticamente qualsiasi commistione col renzismo, ed pare sempre sul punto di andarsene; Francesco Boccia, dicono velenosi nel Pd, avrebbe voluto un ruolo più di peso e, non avendolo ottenuto, gioca a fare il “sabotatore” grazie anche alla posizione di gran rilievo che ebbe a inizio legislatura, quella di presidente della commissione Bilancio della Camera, e dell’indubbia competenza che ha sui temi economici; Stefano Fassina, la cui biografia politica ha avuto una svolta dal giorno in cui Renzi l’apostrofò col “Fassina chi?”, è sempre in bilico tra il non voler disperdere i frutti della sua lunga carriera nel vivaio diessino e la tentazione di mettere a ferro e fuoco ogni emanazione del renzismo; personaggi come Cesare Damiano, ma anche Guglielmo Epifani, paiono voler cercare soprattutto una via onorevole tra la tradizione che portano e il Pd che è.
Infine c’è Speranza, il cavallo di Troia che Renzi ha utilizzato per quest’ultima mediazione: lui fa il capogruppo, lo volle là Bersani e il premier ha così fiducia in lui da non avergli messo nemmeno un Richetti accanto a fargli da tutore. Del resto, come non aver fiducia di un uomo che, anche quando era personaggio di punta del bersanismo d’assalto, spiegava: “Il rinnovamento vero si può fare anche tenendosi per mano”. Potrebbe mai tutto questo diventare un’opposizione unitaria? Difficile. E intanto, il trattore scorrazza.