Renzi, che non crede all’ipotesi scissione, e la minoranza, non riescono a trovare la mediazione sulla legge elettorale che incassa 190 sì all'assemblea del Partito Democratico. Sul tavolo, pare, anche la direzione dell’Unità. Il capogruppo alla Camera si dimette, ma Marcucci twitta sprezzante: «È un’altra seduta di psicanalisi»

Mentre a Montecitorio va in scena la rottura tra Matteo Renzi e le minoranze del Pd, Sky Atlantic manda in onda l’ultima puntata della terza serie di House of cards. Per gli appassionati della galassia renziana, non può certo essere un caso. Quanto succede durante la riunione del Pd è però questa volta più interessante, più vivo della serie di riferimento. Il capogruppo Roberto Speranza, finora uno dei pontieri nella variegata minoranza interna, ha rassegnato le sue dimissioni.

Altri colleghi, una settantina tra cui Giuseppe Civati, Rosy Bindi e Stefano Fassina, hanno lasciato il piccolo emiciclo dove era in corso la riunione del gruppo, prima che si arrivasse al voto che stabilsce - ancora - cosa deve fare il Pd con l’Italicum.
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Non è stato per nulla indolore dunque, l’intervento del premier e segretario Matteo Renzi che ha confermato che l’Italicum va votato così come è («La vita del governo è legata alla legge elettorale»). L’assemblea conferma. Niente modifiche, al massimo si può discutere qualche correzione alla riforma costituzionale per il nuovo Senato.
Personaggi
Chi è Roberto  Speranza, il nuovo leader della sinistra Pd
16/4/2015
«Sarò leale al mio gruppo e al mio partito» ha detto Roberto Speranza, prendendo la parola subito dopo la realzione di Renzi: «Ma voglio essere altrettanto leale con le mie convinzioni profonde. C’è una contraddizione evidente tra le mie idee e la funzione che svolgo e che sarei chiamato a svolgere nelle prossime ore. Per queste ragioni rimetto il mio mandato di presidente del gruppo a questa assemblea che mi ha eletto due anni fa»

«Non cambiare la legge elettorale è un errore molto grave» dice Speranza parlando a nome di quasi un terzo dei deputati del Pd. Matteo Renzi registra, incassa, ma non si preoccupa poi molto. E va avanti. «Tafazzi spara gli ultimi colpi» twitta in diretta il renziano Andrea Marcucci, «ma il Pd questa volta non si fermerà. Serve una nuova legge elettorale, non un'altra seduta di psicoanalisi». E il profilo ufficiale dei senatori dem, ritwitta.L’assemblea dura fino a mezzanotte, anche se, come nota Bindi, andando via molto prima, «non sembra molto utile discutere tanto, se questi sono i termini del confronto».

Inascoltata è la proposta avanzata da Gianni Cuperlo di sospendere per «riflettere» sulle dimissioni di Speranza. Provoca anzi un po' di ironia tra i renziani che dicono: «Prima votiamo e poi semmai discutiamo delle dimissioni di Speranza». Finisce con 190 sì che confermano la linea di Matteo Renzi. Su un gruppo di 310 deputati, non è poi molto, ma è comunque una vittoria. Roberto Speranza, che nasce bersaniano ed è uno dei leader di Area riformista, una delle minoranze interne, con le sue dimissioni certifica lo scontro e però anche il suo fallimento. Non è riuscito a mediare con il premier, neanche con l’ultima telefonata, fatta poco prima dell’assemblea, né controlla più il gruppo parlamentare. Se non fossero state annunciate così, le sue dimissioni sarebbero anche potute esser normali. («Le dimissioni di Speranza prima che un atto politico sono un atto dovuto», scrive su facebook il renziano, romano, Luciano Nobili).

Ma è chiaro che oggi rappresentano plasticamente lo scontro interno. Scontro che Renzi ha provato prima a ignorare, poi a risolvere lasciando immaginare una pacifica spartizione nei futuri listini bloccati, infine sventolando possibili modifiche alla riforma costituzionale e (almeno stando a quanto denuncia il cdr dell’Unità) mettendo sul piatto una nomina condivisa per la vacante direzione del giornale, che dovrebbe presto tornare in edicola.

Magari - è la voce che corre nelle ultime ore - un giornalista di formazione bersaniana ma che sia giovane e a suo agio anche tra gli ex popolari. «È inaccettabile che l’Unità sia usata come merce di scambio tra le diverse fazioni del Pd» ha messo nero su bianco la rappresentanza sindacale degli ex dipendenti del giornale, che ancora aspettano di conoscere il loro destino. Vero o no, è stato inutile. Per ora.

Per gli sviluppi si vedrà. Intanto bisogna vedere se la frattura si sposterà in aula, quando ci sarà il voto decisivo sull’Italicum. L’incubo dei più duri nella minoranza è che possa rivelarsi giusta, alla fine, la previsione fatta da Pier Luigi Castagnetti: «La minoranza Pd potrebbe fare come i dossettiani sull’adesiona alla Nato: voto contrario nel gruppo, voto favorevole in Aula».Poi c’è l’ipotesi scissione. Renzi non ci crede. E gli stessi dissidenti la scansano: «Questa volta una parte significativa di noi sarà coerente con gli impegni che ha preso» dice Alfredo D’Attorre promettendo che il voto sarà contrario anche in aula, e che dire non finirà come con il jobsact che non andava bene ma è stato votato per «responsabilità». Di uscire dal Pd però non è ancora il caso: «Io sento il Pd come casa mia, ma sento che è Renzi che ci sta spingendo fuori» dice ancora D’Attorre.