Vivaddio, è finita. Adesso possiamo riposarci. Ne abbiamo pur diritto, essendo sopravvissuti alla più lunga campagna referendaria della storia universale. Dal 12.4 al 4.12 (diabolica inversione), dal voto finale della Camera al voto popolare: 236 giorni, una gravidanza. Non so voi, ma per quanto mi riguarda non ne potevo più d’allevarmi la creatura nel pancione.
Nel mio caso, però, il mal di stomaco me lo sono un po’ cercato. È colpa mia, l’ammetto: sono reo di neutralismo. La vera libertà è la libertà di non schierarsi, diceva Theodor Adorno. In Germania, forse; non in Italia, non durante l’interminabile vigilia di questo referendum. Qui è scattata subito la leva obbligatoria, e ai coscritti è stato ordinato d’arruolarsi in uno dei due eserciti nemici. Unica eccezione ammessa: il presidente Mattarella. Lui è neutrale per definizione. Ma gli altri hanno ricevuto una risma d’appelli e di proclami da firmare. Specie i costituzionalisti, che d’altronde in questi casi non si fanno mai pregare.
Sono colpevole, lo so. Per antica consuetudine, firmo soltanto gli appelli d’esame. Non credo tuttavia di meritare il castigo che mi è stato inflitto in questi mesi. Una pena doppia, doppiamente crudele. In primo luogo, ho cominciato a usare le mail e il cellulare con terrore. Inviti a pioggia, ma con che motivazione? Dibattiti fra il no e il sì dove serviva un esponente «terzo», per equilibrare. Ma io mica vivo nell’Olimpo: sapevo già come votare, semplicemente non mi sembrava giusto sbandierarlo. La cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti, diceva Max Weber. E poi, sotto sotto, c’era una bella fregatura: accettando, mi avrebbero intruppato nel fronte del «nì», mettendomi comunque addosso una divisa. No, rivendico la libertà di non schierarmi.
Ma questa libertà viene davvero garantita? A chi la eserciti, il meno che possa capitare è di sentirsi ronzare nelle orecchie l’accusa d’essere un codardo, se non proprio un disertore. È successo anche a me, di respirare una cert’aria di disapprovazione. Da qui il secondo castigo, il più venefico. Sicché vorrei dettare una difesa postuma, ora che il supplizio si è concluso. Osservando, per esempio, che l’iscrizione ai partiti non è affatto obbligatoria (art. 49 Cost.), quindi non si capisce perché ci si dovrebbe iscrivere per forza alle milizie referendarie.
Aggiungendo che il voto, dopotutto, è segreto (art. 48 Cost.), mentre in questo referendum ci hanno obbligato a sbandierarlo. E concludendo che diventa arduo esercitare il ruolo critico cui gli intellettuali sarebbero tenuti, se questi ultimi si rendono organici a una corrente o una fazione.
Dopo di che, sia chiaro, ciascuno agisce come crede. Non giudico i militanti del sì o del no; mi basterebbe non venire giudicato. Né condannato in contumacia per diniego di firma, non avendo firmato alcun appello. Anche perché, diciamolo, gli appelli non sono più quelli d’una volta. Un tempo scandivano eventi eccezionali, come il loro più celebre antenato: l’appello diffuso il 15 gennaio 1898 per la revisione del processo Dreyfus, due giorni dopo la pubblicazione del J’accuse di Zola. Ora s’applicano ai fatti più minuti. T’inseguono per estorcerti una firma attraverso le mail, i social network, i luoghi di lavoro. E per lo più non espongono argomenti, ma piuttosto invettive.
Sennonché non è vero, non è del tutto vero, che gli appelli siano una fonte di fastidi. C’è almeno una categoria alla quale, viceversa, recano diletto: gli intellettuali, «uomini la cui mente osserva se stessa», per usare una definizione di Camus. Sarà per questo, sarà per non distogliere energie dall’autocontemplazione, che hanno inventato un modo di manifestare senza scendere in piazza: per loro, soltanto per loro, manifestare significa firmare manifesti. O forse sarà che l’autocontemplazione genera il vizio di Narciso, e quest’ultimo genera l’appello. Che è pur sempre un atto di presenzialismo, una prova d’esistenza in vita. A conti fatti, l’appellante s’appella sempre a se medesimo.