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Politica
settembre, 2016

Dopo Berlusconi non siamo più noi

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La fine politica di Silvio ha segnato anche la divisione del campo degli anti-B: rimasti senza progetto e senza identità

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ll muro di B. cadde un 9 novembre, come il muro di Berlino. Cinque anni fa la fine del governo Berlusconi, la resa al termine di una giornata drammatica, di sfiducia politica e di spread alle stelle, conclusa con la nomina a senatore a vita di Mario Monti, già designato dal presidente Giorgio Napolitano per la successione a Palazzo Chigi. Tre giorni prima, il Pd di Pier Luigi Bersani aveva convocato una manifestazione per chiedere le dimissioni del Cavaliere, l’ennesima.

Nel luogo storico della sinistra, la piazza San Giovanni dei grandi comizi, dei funerali di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. Ricordo quel sabato pomeriggio: cielo di piombo, piazza stracolma e inquieta, urla della folla: «Silvio, vai via!», «Berlusconi dimettiti!», uragano di fischi quando sui maxi-schermi era stata rimandata in onda l’ultima conferenza stampa del Cavaliere a Cannes, quella su «la crisi non c’è, i ristoranti sono pieni». 
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Nel retropalco si aggirava Matteo Renzi. Solo, o meglio accompagnato da due persone, il portavoce Marco Agnoletti e un vigile di nome Pablo che gli faceva da guardaspalle con un pistolone in tasca, perché il sindaco di Firenze aveva rifiutato la scorta. L’accoglienza della nomenklatura era stata gelida. Nessuno si era avvicinato, nessuno lo aveva salutato. Massimo D’Alema inacidito, Matteo Orfini con la pashmina al collo, Enrico Letta con un giubbotto alla Fonzie... Dal palco era arrivata la scomunica del segretario: «Si può discutere nel partito, ma con solidarietà, fraternità, unità», aveva  scandito Bersani, acclamato dalla folla. La mistica dell’unità attorno al gruppo dirigente contro il corpo estraneo. L’anticipo della sfida ventura: Renzi rivendicava la sua appartenenza al Pd, gli altri capi lo trattavano come un virus da debellare, o da espellere.
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È stata quella l’ultima volta, a San Giovanni. L’ultima volta del Pd nella piazza rossa. E non è certo un caso che coincida con la settimana della caduta di Berlusconi. Dopo la piazza è stata occupata da altre bandiere. A San Giovanni, nel 2013, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo ha chiuso la campagna che lo ha portato da zero a otto milioni di voti, evento ripetuto - ma con minore fortuna - un anno dopo, per le elezioni europee. 

Erano mondi che fino a un certo punto erano stati fragilmente insieme: la politica (il centro-sinistra nelle sue varie metamorfosi) e l’anti-politica (Beppe Grillo e il suo pubblico, non ancora elettorato di M5S), i partiti e i movimenti. Con momenti di conflitto durissimo: i girotondi, l’urlo di Nanni Moretti in piazza Navona nel 2002 («Con questi dirigenti non vinceremo mai!»), la manifestazione del 14 settembre 2002, sempre in piazza San Giovanni, con i leader dei partiti sotto il palco e la società civile sopra.
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Anti-politica? No, perché il più applaudito era stato poi un uomo che alla politica e alla sinistra aveva dedicato la vita, Vittorio Foa:  «Io sono un seguace dell’Ulivo e in questa piazza sento che c’è un futuro. È stata per me una giornata felice che non dimenticherò». «Con i valori non si perdono voti», aveva gridato Nanni Moretti, ma in modo dolce, come una preghiera laica: «Noi continueremo a delegare, ma ci siamo svegliati, non sarà più una delega in bianco... Berlusconi non è contro la democrazia, è intimamente estraneo alla democrazia. Se un domani, Dio non voglia, dovesse diventare presidente della Repubblica io, ripensandoci, se non avessi fatto niente proverei vergogna». 

Caduto Berlusconi, quei popoli si sono sciolti. Divisi, frantumati. O senza più nulla da dire: silenti, immalinconiti. Si è scoperto negli anni successivi che, per dirla con Giorgio Gaber, qualcuno era anti-berlusconiano perché esistenzialmente alternativo al mondo delle tv commerciali e del Biscione, lo sarebbe stato anche se B. non fosse mai sceso in campo. Qualcuno era anti-berlusconiano perché Prodi era una brava persona e Dell’Utri e Previti no. Qualcuno era anti-berlusconiano perché non era riuscito a diventare berlusconiano. Qualcuno era anti-berlusconiano perché era stato berlusconiano, ma poi aveva cambiato idea. Qualcuno era anti-berlusconiano perché era anti-tutto: anti-destra, anti-sinistra, anti-politica... E qualcuno era anti-berlusconiano semplicemente perché era arrivato dopo la stagione delle grandi passioni. E dunque sarebbe diventato il più spendibile per guidare la fase successiva. Non da anti, ma da post-berlusconiano: un nuovo leader in grado di ereditare il berlusconismo, senza averlo mai combattuto. 

Come nella canzone di Gaber, «ci si sente come in due». Dopo la fine del muro di B. più che a una ricomposizione, un rimescolamento dei popoli, come nella Germania unita, abbiamo assistito alla balcanizzazione delle etnie politiche, su un fronte e sull’altro. Nel campo berlusconiano si dilaniano la Lega e i moderati, i forzisti della prima ora e i rinnovatori di Stefano Parisi. Nel campo opposto il muro attraversa la sinistra: la minoranza del Pd contro i renziani, gli scissionisti attuali e quelli futuri. E contro tutti c’è l’ex fustigatore dello psiconano di Arcore, Beppe Grillo. Era l’anti-berlusconismo il confine che teneva tutti compatti. La frontiera che definiva chi stava di qua e chi stava di là. Dopo il crollo dell’ex Cavaliere è diventata una missione impossibile per la sinistra italiana dire chi siamo: in quali valori, in quale identità riconoscersi, quale volo progettare. Ammesso che sia rimasta la voglia di volare.

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