
Ma che, a Ostia, scansare il miscuglio di archetipi e stereotipi sia non solo impossibile, ma persino sbagliato, lo si capisce definitivamente quando a via dell’Idroscalo si leva la voce di un passante: «Il monumento a Pasolini? Sta là in mezzo alle frasche, ma nun se vede più. Hanno levato la parte di sopra». Frammenti di surreale: prima all’Idroscalo la scultura di Rosati era circondata dalla campagna in degrado, quella della sequenza morettiana in Caro Diario; adesso c’è il parco, l’oasi naturalistica, ma manca il monumento. Come a dire che una storia storta non può farsi dritta mai. La “parte di sopra” sarà in restauro, dopo gli atti vandalici dell’estrema destra di Militia? Boh. In centro, nello struscio di via delle Baleniere, azzardano un’ipotesi: «Se saranno magnata pure quella». Ecco, per dire il clima.
A Ostia, X municipio, oltre 15 tra quartieri e zone, 230-300 mila abitanti, più che a Livorno o a Parma, quasi gli stessi di Venezia, si gioca adesso una partita che è per metà la resa dei conti finale di questi anni, per metà la prova generale dei prossimi. Elezioni il 5 novembre, 9 candidati, 16 liste, quasi 400 aspiranti consiglieri per 24 posti. Ma è qualcosa che ha pochissimo a che vedere con il (martoriato) territorio in sé e molto invece con l’Italia. Due anni di commissariamento, dopo le dimissioni del mini-sindaco dem Andrea Tassone e lo scioglimento per mafia, hanno confinato questa città-non-città in una specie di storia parallela, in controtempo, dalla quale per la verità i cittadini non sembrano avere speranza di uscire, e sulla quale la politica pare però ansiosa di ballare i suoi tip tap - che ovviamente han poco a che fare col prendere di petto le questioni vere.
[[ge:rep-locali:espresso:285301267]]
Insomma, è come se si celebrasse di nuovo, il big bang di Roma un anno e mezzo fa: con la differenza che, contemporaneamente, si misura la tenuta a “mid term” della sindaca Virginia Raggi e dei suoi sin qui non brillanti risultati. Scendono dunque a frotte leader, presidenti, ex presidenti, capetti d’ogni sorta - escluso solo Matteo Renzi, che come al solito qua non vuol metterci la faccia - mentre i quartieri, dall’Infernetto al Lido, da Axa a Casal Bernocchi, si girano dall’altra parte e si chiudono tra i loro problemi di viabilità, idrogeologia, racket.
L’hanno già hanno fatto nel 2016, quando il tasso di partecipazione alle comunali è stato del 51 per cento, desolante. I grillini trionfarono col 76 per cento, e proprio per questo adesso sono favoriti, ma rischiano. Il Pd potrebbe anticipare l’inabissamento - un risultato che per la verità sembra cercare: invece di far partire da qui la rimonta su M5S, fa una campagna elettorale quasi impercettibile, ha lanciato in corsa un ex verde che sedeva in consiglio comunale già nel 1990, prima di Tangentopoli. Il centrodestra tenta di consolidare gli equilibri unitari, quelli che mancarono nella corsa per il Campidoglio e che invece serviranno per quella a Palazzo Chigi. La sinistra, via associazionismo civico, può risollevare appena il capo dopo anni davvero magri.
«Sì ma alla fine tra i pischelli va di moda CasaPound», taglia corto una felpa gialla con cappuccio che neanche li vota, ventenne tra ventenni, intento all’aperitivo al bar del Curvone, di fronte al mare con sei amici che daranno tutti preferenze diverse, ma su questo son d’accordo: «Gli altri partiti sono invisibili, loro invece almeno fanno cose concrete, accostabili. Li trovi persino ad Acilia, dove a parte la campagna elettorale non si fa vedere mai nessuno». E le campagne xenofobe? Quello che può definirsi il core-business del movimento di Gianluca Iannone, viene considerato un’ovvietà facente parte del pacchetto, insieme alla battaglia di resistenza agli sfratti e all’aiuto alle famiglie. «Spero un paio di consiglieri di conquistarli», dice il candidato presidente Luca Marsella, di fronte all’ex Colonia Vittorio Emanuele, presa a simbolo degli immigrati da sgomberare.
A fianco della testimonial dal cuore nero Nina Moric, la sua speranza di informatico trentaduenne diventa una certezza: «Faremo un risultato eclatante», spara ai telefonini che lo registrano. La sua compagna e capolista Carlotta Chiaraluce se la ride, con la modella croata, a ricordare che «dietro un grande uomo c’è una grande donna», e cerca di intruppare i militanti dal lato giusto per la foto: «Se dovemo girà tutti, così sennò in foto viene l’edicola», sentenzia. «Manda al X Municipio dei combattenti», «Sarà per noi una trincea», sono gli slogan ufficiali. «Quando i Cinque stelle falliranno, prenderemo il loro posto», è invece il progetto politico.
Falliranno? Tra le bancarelle del mercato di Piazza Quarto dei Mille, la candidata M5S Giuliana Di Pillo, ex giocatrice di basket, da vent’anni insegnante di sostegno all’Istituto Fanelli, grillina della primissima ora col Meet up 507 e il movimento civico Ostia che cammina («di rete non ci capivo niente»), si trova a fronteggiare lo scontento per l’amministrazione Raggi, della quale è stata per un anno la delegata e di cui è, in tutto e per tutto, una controfigura. Di quelle che non vogliono per sé alcuno spazio autonomo. Un diesel. «Non sono per niente contenta, io ci speravo ma siete come tutti gli altri», la affronta una signora attillata, accanto a una bancarella dell’usato. La Di Pillo elenca la litania di cose fatte dalla giunta romana per Ostia - con tutti i numerini proprio come se le avesse fatte lei - e tanto insiste che ottiene un pareggio: «Se è così, allora è colpa dei giornalisti che non ce le raccontano», sospira la potenziale ri-elettrice. Il gruppetto grillino dei candidati annuisce contrito - tutta colpa dei giornalisti - e passa al prossimo elettore. I sondaggi sono positivi, ma la battaglia è tosta, da recupero palmo a palmo: tanto che i big sono previsti a frotte, per alzare le quotazioni. «Lavoriamo in sinergia, nei Cinque stelle siamo come una grande famiglia», allarga Di Pillo un sorriso che non si capisce se sia finto, oppure inconsapevole. Per converso, l’attacco ai Cinque stelle è sistematico, viene da tutti, soprattutto da Monica Picca, vicepreside, candidata di Fratelli d’Italia per il centrodestra unitario, in predicato per quel ballottaggio che a Roma Giorgia Meloni mancò proprio per le divisioni della destra.
Ma di tutti costoro, proprio di fronte alla chiesa di Regina Pacis, suor Geneviève e Anna Amelia delle Piccole sorelle di Gesù, che vivono insieme coi giostrai negli vecchi caravan del circo in un angolo del Luna Park, non hanno visto l’ombra. E dire che a far loro visita è andato persino Papa Francesco. Lì, soltanto il nome di don Franco De Donno dice qualche cosa. All’estremo opposto di CasaPound, ma sullo stesso terreno sociale, c’è infatti il viceparroco della chiesa di Santa Monica, autosospeso “a divinis” dopo 25 anni per correre nella lista Laboratorio civico X a sinistra del Pd. Se Casa Pound s’è scelta Nina Moric, lui si fa scudo con Tano Grasso, presidente della Federazione Antiracket. Don Franco per strada lo conoscono tutti: per i matrimoni, le messe e le confessioni - in parrocchia c’era pure Marsella, da ragazzo, e lui infatti per ricordarglielo lo chiama solo “Luca”. Ma soprattutto lo conoscono per quel che ha fatto fuori dalla Chiesa. Gli telefonano anche adesso, a tutte le ore, lui non resiste, risponde: «È gente sola», si giustifica fermando la carovana elettorale. «C’è un fossato spaventoso, tra le persone e la politica: cerco di ricucire, costruire dei piccoli ponti, ma è difficilissimo», dice. Basterà?
Mica tanto. A Casal Palocco, all’incontro col comitato di quartiere, la politica tradizionale annaspa. I candidati presidenti, Pd, Forza Italia, civici, partono in quarta con i loro comizietti sul dissesto idrogeologico. La platea li ferma: «Scusi ma lei chi è, si può presentare?». «Sono Picca Monica, candidata presidente di tutto il centrodestra». «Sono Athos De Luca, mi raccomando andate a votare. E ora parliamo dei problemi vostri». Nella centrale piazza Anco Marzio, a sera, nel comizio della Picca in tandem con Giorgia Meloni, è pressoché impossibile trovare elettori che non siano anche candidati, o parenti di candidati. C’è dovunque qualcuno pronto a offrire il santino. Da Anna, ex infermiera, per conto di suo figlio «che ha due lauree, parla quattro lingue, ma qui fa la guardia giurata», fino a Claudia, ex insegnante, che da decenni si candida sempre ed è intenta ad invitare alla cena elettorale nell’ all you can eat cino/giapponese in fondo al viale, «sponsorizzato dalla Todi’s, amici di famiglia». Il buffo è che intanto dal palco Giorgia Meloni, ultima epigona di un mondo che fu, prende le distanze dai notabilati, «i piccoli potentati che esistono dove manca la politica», cercando di presentarsi come una forza in grado di «non andare avanti come sinora, ma anzi, di cambiare tutto». Addirittura tutto.
Ambizione di qualsiasi partito, cambiare, in specie se l’antipolitica avanza, e l’indifferenza impera. Sul trenino della Roma-Lido, topos di ogni comizio, si sta a capo basso dentro ai telefonini, nessuno si lamenta. «Io ho letto trecento libri in dodici anni, qua leggono in tre e il berlusconismo impera», sospira Roberto, al Central bar della fermata Lido centro - gestito da cinesi. «A me pare che non ci si voglia far carico di una situazione così complicata, ci vuole una forza d’urto che nessuno ha», dice Andrea sul trenino che lo porta a Roma dove lo aspetta un lavoro da tour operator.
Ma facile non è mai, soprattutto in un posto dove gli spazi di manovra son sempre di meno. Tra le baracchette del lungotevere attorno all’Idroscalo, mentre il metallo delle drizze tintinna in cima alle barche, Augusto vagheggia di andarsene, trasferirsi su altri mari, e dice che non è più come prima, che indietro non si torna: «A Fiumicino c’hai il borgo di mare, le donne che capano la verdura. A Fregene la movida. Qua niente». «Fino a quindici anni fa c’era almeno una criminalità ruspante: adesso è seriale, anche il quindicenne rischi che ti spara». Nei telefoni senza fili, per diretta o per sentito dire, i commenti sono così. Appena fuori dal circo delle elezioni - in fondo non poi così invadente - tornano infatti le cose da dirsi a mezza bocca, sussurrando, nel porto turistico, di fronte al McDonald’s chiuso, accanto al casottino dove si spara per gioco, nel lungomare tra i chioschi sbarrati, che nessuno comunque per il momento si sogna di aprire. Li davano in affitto, poi venivano a chiedere soldi. Una due tre volte, finiva sempre male. Una ristrutturazione «appena iniziata», dice non a caso il prefetto Vulpiano, lasciando l’incarico di commissario. «Ma qui, voto o non voto, è uguale», aggiungono per strada: «È solo una prassi, di chi vince non gliene frega niente».