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Politica
maggio, 2017

Matteo Renzi e Beppe Grillo, i neuroni a specchio della politica italiana

Ogni azione del Pd e del M5S si replica nella risposta dell’altro, anche adesso che è partito il nuovo giro di giostra in vista delle elezioni. Che si svolgeranno con regole ancora sconosciute

Le primarie del 30 aprile che hanno rieletto Matteo Renzi segretario del Pd sono state interpretate da inquilini del Palazzo, stampa internazionale, cancellerie europee, fondi di investimento, lobbysti domestici come l’avvio della Grande Giostra.

Il circuito è partito, con le sue lucette e i suoi cavallucci, e terminerà i suoi giri colorati solo il giorno delle elezioni, nel 2018 o quando sarà, perché sulla data del voto il leader ri-eletto è stato a dir poco vago, o forse no, ci sarà un altro giro di giostra anche dopo il passaggio nelle urne, nella prossima legislatura.

Come accadeva ai tempi d’oro di Silvio Berlusconi, il sistema politico si conforma alle tattiche e alle mosse di Renzi, riconosce al nuovo-vecchio capo del Pd il ruolo di chi apre il gioco al tavolo delle trattative e aspetta che siano finalmente mostrate le carte: la data del voto, il destino del governo Gentiloni, la legge elettorale, il catalogo delle alleanze (o delle non-alleanze).

Listoni, listine, modello tedesco, soglie di sbarramento, premi di maggioranza: sono il bric-à-brac del dibattito politico quotidiano, in attesa che siano chiare le convenienze reciproche, premessa dell’accordone tra i partiti da cui nascerà una legge elettorale o almeno un rammendo delle due attuali in vigore per Camera e Senato: impresa difficilissima in scadenza di legislatura, quando dalle regole dipende la vita o la morte politica degli attuali mille parlamentari.

C’è un solo soggetto che non subisce il percorso di Renzi, ma lo anticipa, lo provoca, lo stimola, ed è il Movimento 5 Stelle. I rapporti tra Renzi e il movimento di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio sono sempre più simili a quelli che tra di loro intrecciano i neuroni specchio studiati da Giacomo Rizzolatti: a ogni azione compiuta dal primo corrisponde la stessa azione compiuta dal secondo. Se uno medita di interrompere la legislatura e andare a votare in tempi rapidi, l’altro lavora per accelerare la pratica. Se Renzi vuole per la campagna elettorale uno scontro di liste e non di coalizioni, la gara a chi prende di più che garantirà - premio o non premio di maggioranza - l’incarico del presidente della Repubblica per formare il nuovo governo, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e replicanti vari rispondono che loro sono pronti alla disfida, la lista ce l’hanno già.
Beppe Grillo

Nonostante le violente polemiche quotidiane che dilagano nelle aule parlamentari, nei talk show in tv, sui social network, o forse proprio per questo, i duellanti si tengono su a vicenda, si sono eletti a carissimi nemici e trattano tutti gli altri da comprimari. Il rieletto segretario del Pd sogna di replicare in Italia lo scontro del 7 maggio in Francia: Emmanuel Macron contro Marine Le Pen, ovvero europeisti contro sovranisti, riformismo contro anti-politica, establishment contro anti-establishment. Qualcosa di simile a quanto già successo in Italia nel 2014, quando la campagna elettorale per le elezioni europee si trasformò in una corsa a due, Beppe Grillo lanciato verso il sorpasso e il Pd di Renzi, da poco arrivato a Palazzo Chigi, in difesa del suo primato.

Il costituzionalista Fulco Lachester coniò la definizione di «bi-leaderismo imperfetto». Lo scenario di M5S sopra il Pd era stato accreditato da sondaggi veri o fantasma, Grillo ci credette così tanto da accettare l’invito di Bruno Vespa nello studio di “Porta a Porta” pur di recuperare qualche voto in più tra moderati e pensionati. Finì con M5S doppiato dal Pd del quaranta per cento, in elezioni in cui si votava con la legge proporzionale: a tal punto aveva funzionato la corsa a due che agli altri partiti di destra e sinistra restarono poche fette di elettorato da spartirsi, a stento arrivarono a superare la soglia di sbarramento del quattro per cento, con l’eccezione di Lega e Forza Italia.

Potrebbe ripetersi lo stesso schema: elezioni con il modello tedesco, dizione nobile per nascondere quello che è un puro e semplice ritorno alla proporzionale stile Prima Repubblica, bipartitismo di fatto tra le due liste principali che invocano il voto utile? Renzi sogna il remake del 2014, il Movimento di Grillo nel frattempo ha conquistato la Capitale e altre importanti città e sembra essere d’accordo nella costruzione di una legge elettorale che consenta il duello tra le liste più forti. Il disegno di un sistema politico che spazzerebbe vie i partitini e le forze intermedie, con un premio di governabilità per la lista che arriva prima e che prende il 35 per cento dei voti e soglie di sbarramento più alte dell’attuale tre per cento alla Camera, una ghigliottina per il partitino di Angelino Alfano, Sinistra Italiana, le liste degli scissionisti e di Giuliano Pisapia. Oppure, in alternativa, una soglia di sbarramento del cinque per cento che segnerebbe il requiem di molte ambizioni.

Renzi e Grillo, i neuroni a specchio della politica italiana, non si fidano, si disconoscono a vicenda, eppure la convergenza di interessi è visibile: andare alle elezioni il prima possibile, fare il pieno dei voti, far scattare il voto utile, o di qua o di là, un gioco a due tra due liste acchiappatutto che nel gioco degli specchi potrebbero finire per mimetizzarsi in posizioni non così distanti anche su questioni in apparenza molto divisive.
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Il Movimento 5 Stelle nelle ultime settimane ha smesso di sventolare la bandiera no-euro, rimandando ogni decisione a dopo il voto e Renzi ripete la linea «Europa sì, ma non così» che è una direzione di marcia alternativa ma non così opposta a quella di Grillo come sembra. Sulla casta, i privilegi della politica, Renzi per ora resta silenzioso, ma vuole un Pd che faccia concorrenza a M5S. Anche in Francia, d’altra parte, Macron e Marine Le Pen sono divisi su tutto tranne che nel giudizio negativo sui partiti che hanno guidato la nazione «negli ultimi trent’anni», come dice il capo di En Marche pronto a trasferirsi all’Eliseo. Argomenti che in Italia hanno tenuto banco fino al referendum del 4 dicembre 2016 e che ora sembrano caduti un po’ in disuso, ma sempre buoni per ogni campagna elettorale.

La morsa Pd di Renzi-M5S per spartirsi la maggioranza dell’elettorato inquieta tutti gli altri partiti. A cominciare da quelli che stanno nascendo nell’area del centro-sinistra. Il più interessato a fare da catalizzatore di una nuova forza è l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia con il suo Campo progressista. Un’operazione che considera il Pd come l’inevitabile partner nella prossima legislatura ma rifiuta di fare la parte in commedia della stampella di sinistra del partito renziano.
alfano

«Non siamo né a sinistra né a destra del Pd. Siamo sopra, o anche sotto, se vogliamo evitare di apparire presuntuosi», spiega il centrista di lungo corso Bruno Tabacci, amico di Pisapia, compagno di strada dell’avventura. Nel Pd non apprezzano molto la sfumatura, è arrivata nei giorni scorsi la proposta prendere o lasciare: l’ingresso di Pisapia con alcuni esponenti da lui indicati in un listone guidato da Renzi, magari a fianco di esponenti centristi che arrivano dal partito di Angelino Alfano, altrimenti anche il mite ex sindaco di Milano, campione della borghesia illuminata milanese, sarà considerato un rivale, alla stessa stregua dei fuoriusciti del Pd, «coloro che hanno tradito», come li chiama Renzi, o della sinistra radicale.

Dal Campo di Pisapia, però, arrivano segnali in senso opposto: l’obiettivo è una coalizione alla pari, con il superamento della regola prevista nello statuto del Pd per cui il segretario è automaticamente il candidato premier. Il candidato per Palazzo Chigi andrà individuato insieme e a quel punto anche Pisapia potrebbe entrare nella partita. In caso contrario, ognuno andrà per sé di fronte all’elettorato e l’alleanza con il Pd si farà in Parlamento nella prossima legislatura.

Una lista guidata da Pisapia in competizione-collaborazione con il Pd renziano potrebbe incassare un risultato importante, con la benedizione di un padre nobile come Romano Prodi e di altri personaggi del centro-sinistra che si sentono stretti nel Pd renziano ma non appoggerebbero mai un partitino minoritario, come Enrico Letta. Ambienti che spingono a una formazione unica di Pisapia con Mdp, la formazione degli scissionisti ex Pd. Nessun problema a tenere dentro Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza o il presidente della Toscana Enrico Rossi, a spaventare tutti è la voglia di Massimo D’Alema di tornare in campo con un ruolo da protagonista.
D'Alema

«Volevo occuparmi di Europa dopo il referendum, ma sento il richiamo della foresta, il gusto della lotta politica è irresistibile», ha ammesso minaccioso l’ex leader della Quercia alla trasmissione di Giovanni Floris su La7, con un ghigno assassino modello Hannibal the Cannibal. Ma la sua presenza fa cambiare di segno all’operazione Pisapia: da competizione tra futuri alleati con il Pd di Renzi a guerra aperta, senza esclusioni di colpi. E non è escluso che finisca così perché finora D’Alema si è dimostrato il più lucido e combattivo avversario dell’ex premier: è stato il primo a dire che bisognava votare No al referendum costituzionale e poi è stato il primo a imboccare la strada della scissione dal Pd, Bersani e gli altri sono arrivati in un secondo momento.

«Dobbiamo costruire un’alternativa elettorale ai tanti italiani che non si riconoscono in Renzi, Salvini, Di Maio e Berlusconi», ripete D’Alema. Ma se l’operazione dovesse fallire, la presenza di più partiti, il Campo di Pisapia, la formazione degli ex Pd, più la Sinistra italiana di Nicola Fratoianni, Nichi Vendola, Stefano Fassina, più Possibile di Pippo Civati, renderebbe la frammentazione incontrollabile e farebbe il gioco del partitone di Renzi, che resterebbe a quel punto l’unica solida offerta politica di fronte agli elettori del centro-sinistra.
Giuliano Pisapia

Nel centro-destra la Giostra gira più volte intorno alla guerra finale in Francia tra Macron e Le Pen. Matteo Salvini ruota sempre di più su lidi lontani da Forza Italia. L’ultimo caso è la calata del capo leghista a Palermo, con un suo candidato sindaco per le prossime elezioni amministrative, perché i berlusconiani locali sostengono l’ex Pd Fabrizio Ferrandelli e «a me schifa questa scelta di Forza Italia», tuona Salvini.

Anche nel centro-destra, però, più che i contenuti e le mozioni identitarie che sui temi come l’Europa o l’immigrazione allargano distanze incolmabili tra forzisti e leghisti, conta il giro di giostra che sarà dato al sistema politico da quanto avverrà nell’area del Pd e del centro-sinistra. Se passa l’idea del listone di Renzi allargato a Pisapia e ai partiti centristi che hanno governato con il Pd, a cominciare da Alternativa popolare di Alfano, sarà fortissima la spinta a raggruppare un listone anche nel centro-destra, anche perché alle amministrative, Palermo a parte, nel Nord Forza Italia e Lega vanno uniti e sono in gara per vincere ad esempio a Genova dove governano insieme nella giunta del presidente Giovanni Toti e nel 2018 si vota anche nella storica roccaforte del forzaleghismo, il Pirellone, la regione Lombardia. Altrimenti, se prevarrà la competizione a sinistra, ci sarà una guerra ancora più cruenta per chi comanda a destra: un sotto-campionato in cui per la Lega conta avere un voto in più di Forza Italia, e viceversa.
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Un ultimo colpo di manovella e, oplà, la giostra gira anche per il resto del mondo, i partitini centristi variamente allocati, dai seguaci di Alfano a quelli di Denis Verdini, a Pier Ferdinando Casini, ormai one-man party, all’Udc e ai superstiti di Scelta civica che hanno attraversato silenziosi tutta la legislatura. Non sono rilevati dai sondaggi e non rientrano nelle strategie dei leader. Ma nell’attuale Parlamento possono contare su un centinaio di deputati e altrettanti senatori. E quando si discuterà di legge elettorale peseranno per determinare il giro di giostra dei partiti maggiori.

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