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Politica
giugno, 2018

La sinistra ha perso le sue radici e le sue ali: per questo in Italia non esiste più

La crisi ha radici antiche. Nell’assenza di rappresentanza degli interessi del popolo e nella fine di un pensiero sui tempi nuovi. Ora per ripartire servono idee straniere, ovvero sconosciute

Sono andato ad ascoltare, qualche sera fa, una lettura pubblica di “Pastorale americana” dell’immenso Philip Roth. Lo scenario, l’Isola Tiberina, un veliero naturale alla deriva nel Tevere, nel cuore di Roma, le rovine del passato che affiorano dal fiume, il cielo basso e tempestoso di una notte di inizio estate, tutto contribuiva a suggestionare il pubblico raccolto sotto gli ombrelli. Più di ogni altra cosa, le parole di Roth interpretate da Massimo Popolizio: l’incapacità dello Svedese, il protagonista del romanzo, di sfuggire alla perfezione della sua immagine pubblica, il dramma di non poter essere se stessi, le osservazioni di Nathan Zuckerman, l’alter-ego dello scrittore: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando». Tornato a casa, c’erano in tv i commenti sui ballottaggi delle elezioni amministrative del 24 giugno. E ho pensato che quella pagina di Roth ci aiutava a capire qualcosa anche della sconfitta della sinistra. Del suo ostinarsi a voler capire “bene” la gente. E dunque a condannare se stessa a non vivere. A morire lentamente, o velocemente, come sta accadendo in queste settimane.

Viene da lontano la disfatta del Pd e del centrosinistra. È la conclusione di un ciclo elettorale breve, quello cominciato con il voto politico del 4 marzo, di una fase intermedia, il cui punto di svolta è il fallito referendum renziano del 4 dicembre 2016, e di un periodo molto più lungo, di cui è difficile perfino indicare una datazione.

Il 2007, la nascita del Partito democratico? Il 1998, la caduta del primo governo di Romano Prodi e la fine prematura del sogno dell’Ulivo? Il 1993, l’introduzione del sistema maggioritario? O, addirittura, il 1989 della caduta dei muri e dello spegnersi del comunismo italiano (il nome, il simbolo, le bandiere, ma non l’organizzazione e gli uomini)? Sono possibili tutte queste risposte, naturalmente, e tante altre. L’unica da evitare è la più banale, la più legata alla contingenza. C’è stato un errore di comunicazione, basta cambiare qualche spin, qualche social media campaign manager, o come diavolo si chiamano gli strateghi dei messaggi in rete, e tutto tornerà a posto. C’è un difetto di uomini, fuori Matteo Renzi, dentro Nicola Zingaretti, e si tornerà a vincere anche in Italia.
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Soluzioni rassicuranti, come rassicurante per la base elettorale della sinistra è il faccione del presidente della regione Lazio. Soluzioni consolatorie, come consola aver intercettato nelle ultime settimane anche qui, sulle pagine dell’Espresso, la presenza di un’Italia che non si è ancora arresa all’inevitabilità del potere gialloblu di Matteo Salvini e del subcomandante (molto sub e poco comandante) Luigi Di Maio. Ma che possono rappresentare, nel migliore dei casi, l’inizio di un cammino lungo e difficile, certamente non la sua conclusione.

La crisi della sinistra non è né episodica né contingente. Ha cause remote nel tempo e va collocata all’interno di una crisi di sistema che è italiana, europea, occidentale. Lo ha scritto una settimana fa sull’Espresso, e lo ripete da tempo, Massimo Cacciari: siamo a un passaggio d’epoca che rende le parole della sinistra e del cattolicesimo sociale e democratico un bronzo che risuona, a vuoto.

Lo ha affermato Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 27 giugno): «La società italiana è sospinta vero il futuro e ansiosa verso il nuovo, ma insieme percorsa dal desiderio di ritorno a un po’ di ordine e di disciplina antichi», il senso civico, la stagione dei doveri accanto a quella dei diritti. Nel Pd preferiscono discutere di congresso da fare o rinviare, di conte correntizie, di candidati e di mozioni. E l’ultimo segretario eletto dalle primarie e poi dimissionario, Matteo Renzi, si prepara a condurre un programma televisivo sulle bellezze dell’Italia e della sua Firenze. Un sindaco suo predecessore, Giorgio La Pira, si era ritirato nel convento di San Marco, dove visse il Savonarola, soppresso proprio in questi giorni dall’ordine dei domenicani, Renzi si rifugia nello star system. Alcuni suoi (anziani) compagni di partito si confrontavano con Lucio Lombardo Radice, lui interloquisce con Lucio Presta.
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A sinistra del Pd, nella galassia di Liberi e uguali, si parla di forme organizzative e non di un risultato elettorale catastrofico. I fuoriusciti dal Pd, i Bersani, i D’Alema, gli Speranza, saranno ricordati per aver fatto una mini-scissione con il pretesto di una data congressuale non condivisa mentre tutti i punti di riferimento della sinistra venivano giù. Nell’insieme, c’è l’immagine di una inadeguatezza assoluta, respinta infatti dagli elettori, anche i più pazienti e disposti a sopportare qualunque arbitrio dei dirigenti.

Lo spaesamento, lo smarrimento. È venuta meno l’ossatura organizzativa del tradizionale centrosinistra. Il Pd non esiste più, i movimenti alla sua sinistra neppure a parlarne. È finito il ruolo di supplenza dei sindaci, esercitato sul piano nazionale da quando c’è l’elezione diretta dei primi cittadini, dal 1993 in poi, ma anche nella Prima Repubblica delle regioni rosse e delle giunte di sinistra degli anni Settanta: gli ultimi ballottaggi penalizzano il centrosinistra nelle città del buon governo e della sana amministrazione, categorie che gli elettori non considerano più così aderenti alla realtà a Siena, Pisa, Massa, Imola.

È svanito il territorio, nella Terni operaia che ci racconta Carmine Fotia, e nella periferia romana visitata da Gianni Cuperlo sull'Espresso in edicola da domenica 1 luglio, già da molti anni terreno di scorribanda delle destre di ogni tipo.
Nicola Zingaretti

La sinistra è rimasta senza radici, ma anche senza ali. È senza terra e senza cielo. La terra degli interessi corposi, materiali, il cielo dei valori per cui vale la pena combattere, i principi non negoziabili come la dignità delle persone, la loro uguaglianza e libertà, il pensiero e il dubbio che ti consentono di interrogarti sui tempi nuovi. I sindacati, le associazioni, i movimenti, le formazioni intermedie che rappresentavano il reticolo in cui si inserivano i partiti da tempo non riescono più a mediare, spesso sono gruppi dirigenti senza un popolo alle spalle. E il popolo diventa massa, indistinta e amorfa, pronta a essere utilizzata per qualsiasi avventura. O si disperde nell’individualismo, nell’atomizzazione, nella solitudine che a volte è presupposto di ricerca e spesso, invece, è premessa di rabbia, impotenza, frustrazione, disperazione. L’altra riserva cui la sinistra politica attingeva, l’intellettualità che esprimeva visioni del mondo con cui confrontarsi, veleggia in gran parte tra la vanità e un silenzio sdegnoso che è l’altra faccia del narcisismo petulante e appariscente.

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Il centrosinistra italiano dell’ultimo quarto di secolo non esiste più perché non c’è più il suo habitat naturale, il mondo in cui si è mosso, il contesto. È come se negli ultimi anni fosse venuto giù un altro muro, in Italia, in Europa, nell’Occidente, ma di segno opposto al 1989. Il nazionalismo riappare al posto della globalizzazione, i dazi invece delle aperture, le destre estreme xenofobe e fascistoidi che sbugiardano chi predicava il tramonto delle ideologie. Vengono giù i due presupposti che hanno motivato le evoluzioni difficili, dolorose e contraddittorie del centrosinistra.

Il primo è stato l’Europa. Che per la sinistra italiana è stata qualcosa di più di un vincolo esterno, ma un dover essere, la possibilità di sfuggire all’arretratezza per rientrare in un orizzonte di modernizzazione e di progresso, un destino inevitabile. Uno stato di necessità e non una libera scelta, che come tale è sempre laica, provvisoria, umana e dunque fragile. Questo nuovo sol dell’avvenire si è spento. Al suo posto riemergono gli Stati nazionali che erano stati dichiarati estinti qualche lustro fa. Il Consiglio europeo di questi giorni sulla gestione dell’immigrazione ha messo in luce le crepe, le luci, il cambio di scena. E il tavolo che più conta sulle decisioni di Bruxelles non è quello dei capi di governo o dei ministri finanziari, ma quello dei ministri dell’Interno, egemonizzato dai capi delle destre europee, l’austriaco Kickl, il tedesco bavarese Seehofer, l’italiano Salvini. Il crepuscolo di Angela Merkel è segnato dall’attacco della destra, non della sinistra, così come Silvio Berlusconi è stato politicamente e elettoralmente umiliato dalla Lega e non dal centrosinistra italiano. Le nuove destre si nutrono dello smarrimento della sinistra, avanzano nei suoi quartieri tradizionali, conquistano il terreno lasciato senza sentinelle, ma poi muovono all’assalto delle formazioni centriste, moderate, liberali e popolari che finiscono per rappresentare l’unico argine al dilagare dei sovranisti e dunque il loro principale nemico. È lì il centro della battaglia. Nella cristianità, terreno di scontro: dalla Polonia all’Italia, passando per Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca (il gruppo di Visegrad) e per l’Austria, è l’Europa cristiana e cattolica che viene scossa, divisa tra l’universalismo del messaggio evangelico che predica accoglienza per tutti, a partire dallo straniero, e il ritorno dei clerico-nazionalisti, come tra la prima e la seconda guerra mondiale del Novecento. Per la Chiesa del primo papa extra-europeo, estraneo alla storia del Vecchio continente, è una sfida enorme. Per il centrosinistra italiano, di cui il cattolicesimo democratico rappresenta un socio fondatore e una delle anime, è un problema in più.
Carlo Calenda

Il secondo presupposto che è venuto meno appartiene alla nostra storia recente. Dal 2013 in poi è cominciata una crisi di sistema che ha trovato nell’esito elettorale del 4 marzo e nel governo gialloblu il suo compimento. Non c’è più l’antico bipolarismo centrosinistra-centrodestra che ha costituito l’essenza del vecchio sistema, a entrare in crisi profonda sono infatti le due forze che hanno incarnato la Seconda Repubblica: il berlusconismo (non solo la persona di Silvio Berlusconi) e il Pd, inteso come sbocco del processo di formazione cominciato con l’Ulivo di Romano Prodi. Tutto diventa all’improvviso da buttare: le primarie, l’identificazione tra il ruolo del segretario e quello del candidato premier. E soprattutto, se non c’è più il bipolarismo di ieri, la domanda si sposta sulla identità: che significa costruire un’alternativa di centrosinistra non al centro-destra ma a una destra radicale e a un movimento di uomini nuovi che in comune hanno un unico punto, la trasformazione di tutti gli schemi del passato? Carlo Calenda risponde al dilemma con una proiezione in avanti: andare oltre. Anche se la direzione è incerta e servirà spiegare meglio cosa sia, ad esempio, la lotta all’analfabetismo funzionale.

Nicola Zingaretti allude a un ritorno al passato glorioso: è il figlio prediletto del Partito (quello dei ragazzi della Fgci, s’intende) rimasto miracolosamente illeso nelle lotte di questi decenni, quasi incontaminato. C’è poi chi vorrebbe, semplicemente, non fare nulla e aspettare che i nuovi arrivati si mettano in crisi da soli: il partito del pop corn. I notabili congressuali, quelli che si spostano con il bilancino. Ma anche i testimonial dell’immobilismo nei vecchi recinti della sinistra, così consolatori, come quelle riunioni tra compagni che ti riscaldano perché conosci tutti, ma proprio tutti. Il volto di una sinistra che ha paura, anch’essa, dello straniero: di volti stranieri, idee straniere, ovvero sconosciute, inaudite, sorprendenti. E invece serve cercare ancora, con più curiosità, più attenzione per le cose che si muovono nella società, più passione per le persone e per le loro aspirazioni, sofferenze, speranze, come suggerisce di fare Francesca Mannocchi nel servizio di copertina dell'Espresso in edicola da domenica.

Muoversi senza avere ricette in tasca, anzi, nessuna ricetta. Evitando di voler capire bene la gente. Affrontando il rischio di capirla male e poi male e poi ancora male, di sbagliare. Che significa vivere.

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