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Un anno dopo un pezzo di governo, la Lega di Matteo Salvini, incassa il dividendo almeno virtuale delle sue azioni, toccando quota 38 per cento nei sondaggi, come la Dc degli anni Settanta, quella architrave del sistema e inamovibile dal governo. L’altro contraente del patto, il Movimento 5 Stelle, vivacchia al 17 per cento e se si votasse oggi farebbe fatica a confermare metà dei seggi: un risultato tutto sommato ancora alto per un Movimento che ha mancato ogni promessa, ha tradito ogni aspettativa del suo elettorato, se è ancora possibile evocare la categoria del tradimento in politica. E questo basta a spiegare tutto: M5S è nato come il partito dell’apriscatole per scardinare il Parlamento e oggi è ridotto a un gruppo di parlamentari notabilizzati, senza aderenza nella società. In caso di elezioni anticipate perderebbe anche l’ultimo punto di forza, l’occupazione delle sedi istituzionali che va dai ruoli di governo e di sottogoverno alla presidenza delle commissioni parlamentari e della Camera dei deputati.
Se dai sondaggi e dagli equilibri di Palazzo ci spostiamo alla società, le cose cambiano radicalmente. Lega e M5S hanno un punto in comune: da Roma in giù sono partiti virtuali, senza sedi territoriali, sezioni, gruppi dirigenti degni di questo nome. Ma mentre M5S va giù, il partito di Salvini cresce. «A Sapri ha vinto la Lega», mi hanno detto l’altro giorno nella cittadina che fu teatro della sfortunata spedizione guidata da Carlo Pisacane (1857). Nessuna sorpresa, succede in tutta Italia, anche al Sud.
In effetti, alle ultime elezioni europee il partito di Salvini nella città cilentana è arrivato primo, con il 31 per cento. Ma cosa rappresenti nessuno lo sa bene. Forse il vecchio centrodestra. Forse l’elettorato che si sente alternativo alla sinistra (ma quale?). Forse, uno stato d’animo. In ogni caso, i contraenti del patto di governo in poco più di un anno hanno trasformato la società italiana in un deserto. Il Movimento 5 Stelle era una specie di federazione di rivolte e proteste, ovunque ci fosse un no c’erano loro. Oggi non possono uscire di casa o mettere piede in un corteo a Lecce (Tap), Taranto (Ilva) e ora anche Val di Susa (Tav). Mentre la nuova identità, quella moderata, ragionevole e governativa, non basta per costruire il consenso, il povero Luigi Di Maio si può aggirare dalle parti della Costa Smeralda e basta.
La ribellione nelle piazze è sostituita da una guerriglia politico-parlamentare e mediatica, mossa dal portavoce del premier Giuseppe Conte Rocco Casalino, ritratto da Susanna Turco sull'Espresso, finito per essere il più autentico interprete dello spirito dei tempi. Dal Grande Fratello al Grande Sfracello. Il governo non c’è, si è trasferito al Papeete Beach di Milano Marittima, è una pura messinscena.
Anche il partito di Salvini non nasce da una rete sociale, è piuttosto la rappresentazione di quanto si muove nel profondo del Paese. Il sentimento dell’odio, di cui parla Giuseppe Genna, forse non prevalente nel Paese ma certamente nel reality che va in onda ogni giorno di questa estate: l’attesa di punire, castigare il male altrui.
Nella settimana del delitto di Mario Cerciello Rega a Roma, il vice-brigadiere ucciso nella notte della Capitale tra il quartiere Trastevere e Prati, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha nominato di passaggio in un suo tweet la pena di morte, alludendo alla nazionalità americana dei due ragazzi fermati. Un altro segnale di escalation, un gradino verso la barbarie collettiva. La conferma di quanto scrisse ormai più di dieci anni fa Walter Siti in un libro dolorosamente profetico, Il Contagio, in cui prevedeva che a dispetto delle visioni di Pier Paolo Pasolini sull’imborghesimento delle borgate sarebbe successo il contrario, che tutto sarebbe diventato una grande periferia, feroce e disumana.
Una metamorfosi raccontata nella sua inchiesta da Christian Raimo, il ritorno nei luoghi delle cronache degli ultimi mesi, da Torre Maura a Primavalle a Casal Bruciato, cosa succede quando si spengono i riflettori, quando il circo mediatico ha ritirato le tende, i cortei di Casa Pound si sono interrotti e gli abitanti si ritrovano come prima, solo più abbandonati e impotenti. Al tempo stesso, la politica è stata contagiata dalla rincorsa al basso, un contenitore abbastanza ampio da assorbire risse televisive con seggiole in mano come in un film western, volgarità, sintomi di arroganza del potere come considerare la polizia di Stato come una specie di milizia privata. E la professoressa che si compiace della morte di un carabiniere, e il paese di Bibbiano che sui social di governo risuona come un oggetto contundente da lanciare addosso agli avversari, quasi un sinonimo del Pd, e sì che si parla di bambini e di minori, da trattare con delicatezza e sensibilità infinite, nell’attesa delle conclusioni della magistratura, e invece impugnati per fare del male ai nemici politici.
È la notte dei lunghi coltelli, nel deserto sociale che chiamiamo per abitudine politica. Quella della crisi di governo è pura fiction, una recita per un pubblico sempre meno attento. Quella che si è scatenata nelle città, nei piccoli centri, nella qualità sempre più imbarazzante del dibattito pubblico, è invece molto più preoccupante e nessuno può tirarsi fuori, né la classe dirigente espressa dalla maggioranza di governo, né i partiti di opposizione, né chi per mestiere informa e racconta la realtà.
Qualche giorno fa è toccato al direttore dell’Osservatore romano Andrea Monda provare ad aprire un dibattito sui vizi capitali dell’informazione: «La città è fatta di volti, ma a volte i media tirano fuori una volto dalla folla per sfruttarlo fino all’ultimo, per darlo in posto alla massa». È sempre stato così, si dirà, ma il cinismo della vecchia informazione unito alla potenza dei nuovi social trasforma ogni caso di cronaca in un giudizio di Dio, la spaccatura del Paese in orde di tifoserie agguerrite e inconciliabili tra loro, con la politica - chi avrebbe il dovere di ricucire laddove il tessuto si è lacerato - che invece getta benzina, spezza quello che è incrinato, interviene con clamore laddove dovrebbe muoversi con discrezione e rispetto.
Nel dibattito pubblico la politica è presente dove dovrebbe tacere, un caso di cronaca per quanto importante, e assente dove dovrebbe parlare e chiarire. L’ex sottosegretario Armando Siri è sotto indagine per autoriciclaggio, per la vicenda dei due mutui aperti presso la Banca agricola di San Marino segnalata per primo dall’Espresso nello scorso numero.
Su Siri M5S chiese e ottenne le dimissioni dalla poltrona di governo in piena campagna per le elezioni europee, oggi le reazioni sono state più timide, eppure il senatore era tre settimane fa seduto accanto a Salvini, al Viminale, a spiegare alle parti sociali il suo progetto di flat tax. Tace soprattutto il capo di Siri e di Gianluca Savoini, il sempre disponibile a dichiarare ministro Matteo Salvini. Si parla e si discute di pugnalate e migranti per non rispondere sugli scandali finanziari che da tempo coinvolgono gli uomini più vicini al Capitano.
È la via populista alla trasparenza e alla verità: reclamarla per gli altri, negarla per sé. Eppure, ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricevendo i giornalisti al Quirinale per gli auguri estivi, quando nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti fu investita del caso Pentagon Papers, che portò alla luce la politica Usa sul Vietnam rivelando segreti di Stato, il giudice Hugo Black tornò allo spirito che, 182 anni prima, aveva animato i padri fondatori nel contemplare il divieto di varare qualsiasi legge che limitasse la libertà di parola o di stampa. «Nel primo emendamento», argomentò Black, «i padri fondatori dettero alla libertà di stampa la protezione che le occorreva per assolvere il suo ruolo essenziale nella nostra democrazia. La stampa era fatta per servire i governati, non i governanti. Il potere del Governo di censurare la stampa fu abolito affinché essa rimanesse per sempre libera di censurare il Governo. La stampa fu protetta affinché essa potesse mettere allo scoperto i segreti del Governo e informare il popolo».
Una sentenza di quasi cinquant’anni fa negli Usa, la stessa che concludeva il film di Steven Spielberg “The Post” (2017), ha permesso al presidente Mattarella di ricordare una semplice verità: la stampa serve per mettere a nudo i segreti del governo e di informare il popolo. Vale per i governanti di ogni tempo e di ogni luogo, dai Pentagon Papers al Watergate al nostro Russiagate. L’estrema menzogna dei populisti è negare al giornalismo questo ruolo. Agitata dal Papeete Beach, da dove si governa il Paese. E si finge di far vedere tutto, non parlando in realtà di niente.