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Di decreto in decreto, di conferenza stampa in conferenza stampa, di stazione in stazione, di porta in porta, di pioggia in pioggia, di dolore in dolore, si vorrebbe credere che il dolore passerà, come nella canzone di Ivano Fossati.
Ma il dolore non passa, aumenta, come il numero dei contagiati, dei ricoverati, delle terapie intensive, dei morti. Lo vedi nello stress e nella tensione dei volti dei medici e degli infermieri, che non abbiamo più neppure la voglia di chiamare eroi perché questa è una guerra a rovescio, abbiamo pensato che in primavera fosse arrivata la battaglia di Vittorio Veneto e invece ora temiamo Caporetto. E lo vedi nel panorama urbano che torna a cambiare, più mobile delle sabbie del deserto. Era bloccato, poi di nuovo affollato, ora ancora una volta tetro e cupo, ma alle sirene delle ambulanze si aggiungono quelle delle camionette della polizia e i boati delle bombe carta, le bande notturne, i saccheggi, le violenze, lo sciame, il formicaio impazzito, come nel film “Joker” di Todd Phillips che sembrava parlare di ieri e invece preconizzava il nostro domani. Lo cita Giuseppe Genna nel suo racconto su Milano.
Molte manifestazioni sono teatro, messa in scena, la rappresentazione della rabbia, non la rabbia vera. La disperazione resta a casa, non va in corteo a sfasciare le vetrine, come dice Roberto Saviano nel dialogo che apre il nostro giornale. Ma c’è qualcosa di più, oltre le telecamere spianate sulle cariche della polizia nel centro di Roma o di Milano e Torino, le rivolte formato Ztl, speculari alle presunte élite che ne saranno impressionate, costruite appositamente per scatenare l’opinionismo di chi nel raggio delle Ztl abita, scrive, commenta. C’è la guerra civile strisciante che fa da sfondo all’impossibilità di riportare a un filo unitario i mille particolarismi, il mosaico delle tessere impazzite che è il governo diffuso del Paese, quello che non riguarda soltanto il premier, i ministri e un pugno di capipartito, ma sindaci, amministratori locali, addetti alla pubblica sicurezza e alla protezione civile.
Il primo lockdown fu erga omnes, valeva per tutti, appiattiva, omologava tutti nella stessa situazione di chiusura e fu vissuto come un momento di unità senza precedenti contro il nemico covid. E invece era l’altra faccia dello sfaldamento del tessuto civile, nascondeva la rincorsa dei micro-interessi di parte che si vede negli ultimi giorni. È bastato allentare la presa e siamo tornati al tutti contro tutti. Il secondo lockdown, per ora leggero, svela che ogni categoria prova a difendersi da sola, con ogni mezzo, se riesce. Il pubblico, la politica, vacilla perché oggi impone un nuovo prezzo ai privati - imprenditori, ristoratori - negozianti, mentre non è riuscita a raddrizzare quello che andava messo in ordine in questi mesi di tregua apparente del virus. Fallisce nell’idea forza, che con il virus si potesse convivere se si fossero rispettate le regole, con i locali a norma e le distanze rispettate. Molti bar e ristoranti lo hanno fatto, i cinema e i teatri nella quasi totalità, gli autobus e la metro no. Il governo mette in campo i ristori per i più colpiti, ma ancora una volta restano fuori quelli che non sono in nessuna casella, che non hanno diritto neppure al risarcimento. Sono loro le ombre della notte tra i fumogeni delle piazze: i non garantiti da nessun sindacato e nessuna associazione di categoria, a volte giovanissimi, altre volte non più, in ogni caso senza nulla da perdere perché per loro di ristori non c’è traccia.
La rivolta non è nelle manifestazioni, ma in questo patto di fiducia tradito, o meglio non spiegato da nessuno. Perché a fronteggiare il disagio, il malcontento, il dissenso c’è quel pezzo di Stato che è l’avamposto, in prima linea in ogni emergenza, i sindaci prima esclusi e poi chiamati in causa per una notte da un Dpcm del governo come se fossero buttafuori in una discoteca. Ci sono le forze dell’ordine. E poi il nulla. Eccoli qui i corpi intermedi che smettono di essere materia di convegno e assumono corpo, carne e sangue, sostanza e soprattutto assenza. Il formicolìo della società civile che spesso è ricchezza e partecipazione, ma ora diventa anarchia e distruzione di un senso comune perché non ascoltato, non interpellato, non rappresentato. In una parola: non governato.
La distanza tra il potere e i cittadini è la grande questione istituzionale e politica che ci propone il drammatico 2020. E non riguarda, sia chiaro, soltanto il governo Conte e i partiti di maggioranza, il Pd e i 5 Stelle. Anzi, il capo della Lega Matteo Salvini che insegue ogni protesta di piazza in piazza è figlio di questa idea di politica dis-intermediata. Simula di stare in un territorio, e nella fase crescente, tra il 2015 e il 2019, la sceneggiata gli riusciva facile, ma in realtà è collegato con una trasmissione televisiva, è connesso con i social, è un leader aereo, senza radici, che vanta i piedi piantati nel fango. Matteo senza terra è l’altra faccia del da lui odiatissimo premier Conte, virtuale come un sondaggio, fatto della materia dei sogni come gli stati generali che convocò a Villa Pamphili senza esito. Un’idea paternalista di democrazia li mette nello stesso sacco. Il primo lockdown aveva stabilito le parti in commedia. Conte aveva trovato nell’emergenza l’agenda del governo che mancava, atteggiandosi a guida del Paese che chiudeva le porte di casa per difendersi dal virus. E la coppia Salvini-Meloni, candidandosi a fare da catalizzatore di tutti quelli che erano rimasti indietro, era funzionale a fare da collante per la maggioranza.
Oggi questi ruoli sono arrivati all’esaurimento. Parla Emmanuel Macron a nome della Francia, parla Angela Merkel a nome della Germania, in Spagna il premier socialista Pedro Sanchez riscrive l’accordo di governo con Podemos utilizzando la legge di bilancio 2021 con una patrimoniale che finanzierà sanità e scuola pubblica, ricerca, affitti, cultura, turismo, violenza di genere. In Italia il premier Conte ha dato l’idea di parlare a nome di una maggioranza scomposta e di un Consiglio dei ministri sull’orlo della crisi di nervi. La lettera di risposta dell’avvocato del popolo al maestro Riccardo Muti sulla chiusura dei luoghi della cultura (Corriere della Sera, 27 ottobre) è quasi un capolavoro nel suo genere: «la gestazione dell’ultimo Dpcm è stata particolarmente sofferta», ha scritto Conte, rivelando che solo dopo essere stato sicuro dei successivi interventi per le categorie colpite «ho apposto la mia sottoscrizione al documento». La prosa da professionista del cavillo avrebbe fatto la gioia di Luciano Bianciardi («il problema», scriveva nel 1957 in “Il lavoro culturale”, «si pone o si solleva, indifferentemente; quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito...»). Ma è il riconoscimento di un travaglio finora mai uscito allo scoperto.
Il premier che non firma, ma “appone la sottoscrizione”, è un leader incerto, alla guida di una maggioranza indocile, e per di più scavalcato dal protagonismo delle regioni. Il vero Consiglio dei ministri, oggi, è la conferenza Stato-regioni, il club esclusivo dei venti presidenti più due province autonome che governa l’Italia della pandemia. Non si può immaginare che Vincenzo Spadafora conti più di Luca Zaia o Teresa Bellanova più di Vincenzo De Luca. In quel Consiglio dei ministri ombra, conflittuale ma dotato di un effettivo anche se non formale potere decisionale, sono già oggi rappresentati i partiti di maggioranza e di opposizione. C’è il Pd e c’è la Lega, c’è l’ex berlusconiano Giovanni Toti e ci sono i presidenti di Marche e Abruzzo fedeli a Giorgia Meloni. È già il profilo di un governissimo, o di una co-gestione.
Manca il Movimento 5 Stelle, certo. Ma la domanda che tutti si fanno nel Palazzo e se di fronte alla tragedia sanitaria, economica e sociale che stiamo per attraversare sia possibile continuare con questa situazione. L’attuale maggioranza è formata da un partito (M5S) che nel 2018 ha vinto le elezioni ma che ora è politicamente un quadro cubista e da un altro (il Pd) che regge il sistema ma che quelle elezioni le aveva straperse. Guidato, all’epoca, da un leader (Renzi) che oggi ha come unica ragione sociale il tiro al piccione nei confronti dell’inquilino di Palazzo Chigi. Sul fronte opposto, quello dell’opposizione, Silvio Berlusconi offre la stampella di Forza Italia alla maggioranza, la Meloni prova a entrare in partita, ma quel che più interessa è il futuro di Salvini. Il Capitano è sbiadito, come se appartenesse a un’altra epoca. Non ci sono più gli sbarchi, la sicurezza è oggi associata agli infermieri che ti entrano in casa per misurare l’ossigenazione del sangue mentre prima evocava i ladri da bloccare a colpi di fucile per legittima difesa. Dall’Europa nessuno vuole più uscire, ma semmai ricevere in fretta i fondi promessi. Agli occhi di un uomo concreto come Zaia Salvini incarna tutti i difetti del leader romano: parolaio e inconcludente. Il leghista Giancarlo Giorgetti ha indicato una strada: rieleggere tutti insieme Sergio Mattarella e poi tornare subito al voto. Giorgia Meloni ha proposto qualcosa di simile: gestire insieme alla maggioranza alcune misure anti-covid e poi andare alle elezioni. Di Salvini, invece, non ci sono notizie. Ma un’apertura di tavolo aprirebbe un chiarimento traumatico nel centrodestra e nella Lega, forse con un cambio di leader.
Il guaio è che il Paese è legato a questa doppia inconcludenza, della maggioranza e dell’opposizione. In un sistema istituzionale che risente del taglio dei parlamentari, ma non ha ancora trovato una nuova legge elettorale e si avvia verso il semestre bianco della presidenza, il periodo più fragile nella vicenda repubblicana perché si indeboliscono i poteri del Capo dello Stato.
La disunità nazionale, sociale e politica, è il volto nascosto dell’emergenza sanitaria. Mentre il mondo attende il verdetto del 3 novembre negli Usa. Ma se tutto si strappa, allora va costruita con pazienza una stagione di unità nazionale, con le donne e gli uomini rappresentativi e al posto giusto. Sempre che ci sia ancora il tempo.